Lu rusciu de lu mare (o del vuoto generazionale)
La notte, in questo lembo fra la campagna e il mare, c’è un angolo in cui svaniscono – anche solo per un istante -, i falò incendiari del ferragosto, la porno-pizzica bagnata all’angolo dei vecchi borghi, il suono rutilante dei tamburelli o dell’odore dei pezzetti di cavallo o delle viscere. La notte, in un preciso particolare momento di ispirazione, puoi trovare qui il tuo angolo dove giocare anarchicamente con le sensazioni: dipingendo con un colore il profumo, ritrovando l’odore nel tatto o l’udito nella vista della schiuma delle onde del mare. Sono momenti che non ti danno nemmeno le canne, forse il sesso, l’amore, quello stato di abbandono e di trance con le tue emozioni del tuo corpo nell’universo empatico delle emozioni del corpo dell’altro… Forse può qualcosa l’arte, come fa il poeta nei lunghi periodi, annodati, parole su parole quasi alla ricerca di un momento di estraniazione, che però se non sei bravo si inceppa, finisce per suonare male, si aggroviglia come un’espressione algebrica persa fra parentesi e parentesi, tante, troppe, da rimanerci intrappolati, ghettizzati e allora devi essere bravo per deframmentare, scomporre, cercando di dare nuove forme, nuovi volti, come faceva quell’artista spagnolo che solo dopo aver scoperto le minuziose linee della pittura classica poteva rompere con le tradizione; come faceva quello che portava il mio stesso nome, ovvero io avevo un soprannome uguale: Picasso. Chiamatemi Picasso.
Arriviamo in Salento e prendiamo in affitto una casa zona Torre Pali. Staremo quindici giorni. Giorgia dice che abbiamo tutto quello che ci serve: “pesce fresco a nastro, pizzica, pizzica, pizzica, una tele per Rio 2016 e tutte le prese che vogliamo per gli smartphone”. Giorgia dice anche che tanto Picasso non sarà contento, ma mica me lo dice a me; no! Lo posta su facebook: la mia felicità è una glossa a margine di un selfie estivo con un libro di storia moderna in mano.
La prima mattina siamo andati in spiaggia con la decapottabile del figlio del Doc: un regalo del papà per la laurea in Scienze politiche. Allunghiamo verso San Foca per una colazione a frutti di mare, in quei pochi secondi concessi alla radio era partita la canzone di Rovazzi, il figlio dell’Avvo ha detto di togliere quella monnezza, ci siamo fatti il viaggio a suono di punk rock, reggae e trip hop, ma ho avuto l’impressione che l’andare a comandare ci fosse rimasto appiccicato addosso, aveva perso la spontaneità di quella cantata da un ragazzino rapper e si era trasformato in qualcosa per quarantenni che sorseggiavano Negramaro, sfoggiavano Fred Perry, sfruculiavano molluschi e frutti di mare.
Eravamo i figli dei ricchi, senza nessun lavoro però – se non quello ereditato dal mestiere dei genitori -, senza nessuna casa però… Eravamo quasi tutti comunisti però…
La cosa cominciava a prudermi. A un primo sguardo superficiale potevo sembrare uno snob del cazzo. La verità è che non sto bene. Ho quarant’anni, non venti e questo divertirsi a forza mi deprime, più sorrido perché c’è da farlo e più mi vengono manie suicide: più faccio fatica di restare negli eventi che contano, ascoltando la musica che conta, a rimorchiarmi più tipe possibile e più mi viene il vomito. Mi chiamano Picasso per i miei lineamenti sgangherati, la faccia a incudine ma io vorrei trovarmi a un altro soprannome. Mi piace molto Underdog, suona bene tipo Loser ma non è inflazionato, devo allontanarmi dai miei amici, questa mania di essere smart mi fa sembrare un deficiente e tali mi sembrano pure loro, i miei amici, quando lo fanno. Oggi il figlio dell’Avvo per far ridere le ragazze ha preso in giro un ragazzo sensibile, facendo così si sente una star, a me mi sembrava Bonolis che scherzava con persone senza un minimo di sensibilità.
Basta. Ho individuato a pochi passi dall’appartamento un piccolo bar vicino al mare. Ha una luce sempre accesa e un tavolino, andrò lì con il mio libro di storia e una stuoia. Sembra la notte buona per il silenzio….