C’è uno squalo nel tetto

Precipitevole discesa dall’etere. L’oceano, le montagne, puntini millesimali, ingigantiscono ravvicinandoli; morrò infranto, oh mio Dio! Caduta libera, devo cambiare direzione, aziono le dorsali, rallento con la pinna caudale; ho i secondi contati, ma forse no, ecco una pozza d’acqua, sembra una piscina, che bello! Farò uno di quei tuffi che nemmeno alle olimpiadi, ma che diavolo. Dannazione! Una corrente d’aria, andrò a sbattere contro quella casa, oh Santa protettrice degli squali cadenti prega per me, ecco che mi c’infilzo: che botta, sono rimasto incastrato nel tetto. Devo trovare il modo di liberarmi: Cartoonia ha bisogno di me. Uscirò di qui, basta spostarmi un po’ a destra, poi a sinistra: ecco, sì, ci sono quasi ma, oh madonnina che spavento! Chi sono quelli sotto il tavolino e perché urlano? Urlo anche io, loro urlano più forte: sono spaventato. Una vecchia signora entra nella stanza: è piccola, ricurva, quasi atavica, incede tremando, deve essere molto pericolosa con quel bastone.
“Nonna Jenny attenta: si è infilato uno squalo nel tetto”, dice una voce da sotto le gambe del tavolo
“Cosa c’entra adesso il quadro di Ernesto?”, risponde la vecchina
“Il tetto!”, le urlano da sotto il tavolo
La vecchina leva lo sguardo, mi vede, le sue pupille si dilatano, i suoi occhi mi raggiungono, sono enormi, stanno per inghiottirmi, ha i capelli ritti. Serro lo sguardo, chiudo la bocca, batto i denti, potrei morire. S’ode d’un tonfo ad un tratto. La vecchina è stesa al suolo. Una mano si sfila da sotto il tavolo, la afferra per una caviglia e la porta al riparo.
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Videocut

 

numpu
Foto: https://scriverecreativo.wordpress.com

Numpu si svegliò e tutto le sembrò maledettamente normale. La piccola stanza seminterrata era la sua tomba. La porta inchiavardata, la spia della webcam costantemente accesa e il suo corpicino nudo in primo piano per gli utenti connessi. Il diavolo sa cosa facesse quella gente quando la spiavano. Riconobbe il Natale dalle mutandine nere con una cometa disegnata sul sedere trovate sul comodino. Poco distante semplici istruzioni: “mostra la fica alla cam mentre le indossi”, firmato il tuo vecchio, dolce, rapitore. Numpu eseguì gli ordini pensando a qualche mese fa, quando poteva essere bambina, quando poteva farsi benedire dal sole.

 


Il racconto nasce da un esercizio di stile proposto dal sito: Scrivere creativo. Le regole del gioco erano abbastanza semplici: partire dalla foto dell’articolo e narrare del futuro di quella bambina che ha le braccia aperte e lo sguardo verso il cielo. L’unico vincolo stava nel numero di parole da usare nel racconto: esattamente 100. Ne è uscita una storia triste, mi dispiace e mi dispiace ancora di più per le tante, piccole, Numpu che un esercito di porci pervertiti mercifica sin dalla nascita.

Body rental. Storie in affitto.

Un piovoso giorno d’estate un uomo che viveva a Roma, abbronzato e con una barba incolta, sfruttando un po’ di magone che si portava per la fine del contratto che lo aveva occupato come sistemista per sei mesi, decise che quella sera si sarebbe rilassato con venti sigarette, qualche drink e un po’ di musica. Aveva quasi quarant’anni, era single e le serate con qualche amico al pub lo facevano evadere da quella generazione che avrebbe ignorato la noia del posto fisso. Aveva scelto questo rituale di ritorno momentaneo all’adolescenza, quasi come se fosse una fiaba in cui, evitando di crescere sul serio, non avrebbe rischiato di pensare alla sua condizione di equilibrista sopra un’esistenza in disfacimento come la pelle dei serpenti.

L’uomo si chiamava Giovanni detto Brando, s’era messo a studiare appena sveglio dei manuali in inglese per una certificazione tecnica, aveva cucinato un galletto con degli spinaci, inviato diversi curricula su internet, fatto pesi, whatsappato e, giunta la sera, sarebbe andato al Nowhere Pub. Era annoiato già prima di uscire di casa, triste e un po’ sbruffone come quei bei ragazzoni che non hanno certezze ma conservano un senso etico-estetico e qualche residuo di giovinezza. Arrivò al Nowhere poco prima delle dieci, ebbe la fortuna di trovare il parcheggio lì vicino, passò davanti a una vecchia locandina appesa anch’essa in bilico sul muro ed entrò nel locale. Davanti a lui, leggermente avvampata da una luce al neon si spalancava una sala gremita di gente; avrebbero suonato i Disorder, una band del quartiere devota ai Joy Division, nel frattempo si conversava e si beveva; il DJ passava da Voglio andare ad Alghero, ai brani di Mannarino, ai Pearl Jam; Giovanni detto Brando ordinò un Moscow mule. Sorseggiava il cocktail e anagrammava le parole che lo colpivano; in quel gioco era abbastanza bravo e quelle lettere spostate, decostruite e ricomposte gli davano l’idea di proiettarsi in una realtà diversa, ancora una volta, più sopportabile; Levi’s allora divenne lise e partì l’associazione con le sue camicie che aveva indossato ai primi colloqui; poi gli venne in mente quella rima gozzaniana con Nietzsche, i tempi dell’università, Bice Laurenti e infine si scoprì in un piccolo sorriso quando tornò al suo anagramma iniziale: Levi’s – Elvis: il CD che aveva regalato proprio a quella compagna di studi e che iniziava con Love me tender.

Il Cobrador raggiunse Brando dopo una mezz’oretta, i due si salutarono e si sedettero uno accanto all’altro; davano le spalle al bancone, lo sguardo si incuneava in profondità al centro della pista, i piedi penzolanti dagli alti sgabelli; quando la band salì sul palco, quando le luci si accesero, quando gli amici dei Disorder li accolsero con i soliti piccoli gemiti, al primo accenno di un accordo metallico; il Cobrador fece calare leggermente la t-shirt per scolarsi l’ultima goccia di birra e Brando notò una cicatrice che gli lambiva il collo.

“Quando verrò a trovarti a Parigi mi aspetterai al Montparnasse o ti riserveranno un posto d’onore al Père-Lachais?”,

“Preferisco che la mia pellaccia riposi vicino a quella di Gainsbourg, i pellegrini che visitano la tomba di Jim mi innervosirebbero”, rispose il Cobrador e continuò a guardare fisso davanti a lui; Brando, in fondo, non aveva bisogno di  un racconto dettagliato, sapeva che il suo amico era partito dal sud Italia da almeno cinque anni e del lavoro pericolosissimo che svolgeva in Francia: era una sorta di strozzino al contrario; le aziende o i privati che dovevano ancora incassare diversi soldi, lo chiamavano, lui rispondeva  e partiva alla ricerca dei debitori. Il Cobrador sapeva come farsi pagare, era maestro di arti marziali, non portava con sé nessun tipo di arma; c’erano solo lui e i suoi metodi di convincimento.

La vita del Cobrador a Brando però un po’ lo metteva in ansia; gli voleva bene al suo amico e alla vista di quella cicatrice si allontanò dal locale e si andò a fumare una sigaretta; quell’atteggiamento di scappare, fuggire, estraniarsi ce l’aveva con tutte le sofferenze che si attaccavano alla vita delle persone a cui voleva bene; aveva cominciato con la malattia della madre (non voleva nemmeno sentirne parlare).

Fumata la sigaretta tornò nel locale e trovò il Cobrador al solito posto, intorno a lui c’erano tre ragazze, sembravano sorridere a vicenda, oscillando il corpo a tempo di musica. Il Cobrador presentò le ragazze a Brando, se ne stettero un po’ a parlare della band, del locale e fecero qualche commento scherzoso sul cantante che si atteggiava a fare il Morrison di periferia. Brando era un bel uomo, dimostrava meno anni di quelli che aveva, ma era molto timido con le donne, quasi impacciato, le ragazze erano giovani e carine, meno una. Si azzardò a chiedere: “Venite spesso qui?”.
“Più o meno una volta al mese”
“Volete una birra?”, chiese il Cobrador
“Io no”, rispose Brando, “mangerei però volentieri un cornetto”
“Qui vicino c’è una cornetteria notturna che ne fa di buonissimi e vende anche birre artigianali”, rispose una delle ragazze che si chiamava Luna. Le altre due si chiamavano Sabrina e Chiara. Avevano tutte e tre un bellissimo odore ed erano elegantemente semplici. Brando allora propose di andarsi a prendere un  cornetto, il Cobrador accettò volentieri, le ragazze anche ma lo fecero con l’aria di chi si aggregava solo perché quella serata rock and roll cominciava ad annoiarle.

Brando parlò parecchio con le ragazze che lo ascoltavano tirando fuori, di tanto in tanto, lo smartphone. Il Cobrador prese la sua birra ma alla fine mangiò anche un cornetto; anche le ragazze ne mangiarono e Brando notò, che lo facevano con gesti piccoli ed eleganti mentre il suo amico quasi tracannava la birra e si ingozzava con i dolci. Le ragazze avevano un posto manageriale all’interno della stessa azienda; Brando questa cosa l’aveva capita semplicemente osservandole; Luna e Sabrina erano amiche fin dai tempi del liceo mentre Francesca era la più vecchia delle tre. Sabrina non era proprio una “cozza” ma a Brando piaceva Luna, era così sorridente che la sua gioia di vivere sembrava quasi uscirle fuori.

Dopo la birra, i cornetti, le chiacchiere, tornarono a piedi al Nowhere. I ragazzi si scambiarono l’amicizia su Facebook e i numeri di telefono; Luna allora disse di voler offrire a tutti un’ultima bevuta in onore della serata piacevole che avevano passato; Brando e il Cobrador presero un Southern Comfort, i Disorder avevano smesso di suonare ed era ripartito il DJ Set mentre la gente cominciava a sfollare dal locale. Dopo quella bevuta si salutarono; Brando tornò a casa e dormì. Prese sonno tardi, a dire il vero, perché nonostante fosse già mattina, un tamarro che abitava nel suo stesso isolato cominciò a farsi i giri in macchina con l’autoradio “a palla” da cui usciva musica dance. Alla fine però vinse il sonno.

Brando fu svegliato dalla telefonata del Cobrador:
“Devo partire Brando, ieri mi ha fatto piacere rivederti”
“Anche a me” ripose,  poi si ricordò della ferita sul collo e gli disse di stare attento.
“Non preoccuparti: ho la pellaccia dura”
“Lo so, ma vedi di non finirmi scuoiato”
“Ci vediamo presto”

Brando riattaccò, mandò un Whatsapp con il buongiorno a Luna e si infilò in doccia. L’acqua fresca lo rinvigoriva, mise i REM su Spotify, fumò una sigaretta e ricevette uno smile da Luna; dopo un po’ di chat si misero d’accordo per mangiarsi una carbonara; la scelta del posto fu un po’ difficile, dapprima pensarono al Ghetto, ma poi declinarono perché quello era posto da carciofi e locali per turisti; alla fine scelsero una piccola trattoria a Prati che conosceva Luna e che non era molto distante da dove viveva. Brando decise di raggiungerla in autobus, uscì di casa e si diresse verso la fermata del 628. Durante il viaggio, pensò che a lui Luna piaceva davvero tanto, avrebbe dovuto studiare o inviare altri curricula e invece i suoi pensieri sembravano muoversi solo in direzione della ragazza, aveva voglia di passare più tempo possibile con lei e già pensava al dopo pranzo, cercando di sbirciare dai finestrini dell’autobus, all’altezza di Torre Argentina, se ci fosse uno spettacolo che potevano vedere insieme; pensò a lei, al suo sorriso, al suo profumo, durante tutto il viaggio.

Arrivato a Piazza Mazzini scese dall’autobus, aveva circa 500 metri dal luogo dell’appuntamento, era maledettamente in anticipo, si disse che andava bene così, l’ansia lo portò a fumarsi tre, quattro sigarette nel giro di una decina di minuti, camminava avanti e indietro e quando capitava una vetrina riflettente ci si specchiava, sistemandosi la camicia o spicciandosi i capelli alla bene e meglio. Luna giunse quasi puntuale all’appuntamento; Brando la riconobbe dal sorriso. Arrivarono al ristorante e ordinarono lui una carbonara, lei una cacio e pepe, dell’acqua minerale e mezzo litro di bianco della casa. Lo inteneriva la semplicità della ragazza; lei invece sembrava più femmina di quanto desse a mostrare, si appassionava e chiacchierava coinvolta ma a tratti sembrava sparire, certe volte anzi dava l’idea di aver accettato l’invito solo perché non avesse nient’altro da fare; quando Brando gli propose di andare a vedere uno spettacolo all’Argentina, Luna le disse che purtroppo si era già organizzata il pomeriggio con Sabrina e altri amici. Brando e Luna si vedettero diverse volte nei giorni a seguire, molto spesso lui l’andava a prendere in macchina e la portava al ristorante, al cinema, al teatro; alcune sere restavano a casa da lui insieme agli amici di lei e lui aveva piacere nel cucinare e fare gli onori di casa; arrivò anche la festa di San Pietro e Paolo e tutta la comitiva andò a mangiarsi le noccioline e a guardare i fuochi di artificio. Brando era timido e non aveva detto niente del suo interesse per Luna ma la ragazza lo aveva capito, si avvicinava e si allontanava da Brando quasi a farlo apposta.

L’8 di Agosto Luna gli disse che sarebbe andata a Potenza a trovare i genitori; dicendogli queste cose gli sfiorò le mani e gli baciò le labbra. Luna sarebbe partita l’indomani al mattino ma sul volto di Brando, per qualche secondo, splendeva il sorriso della ragazza; la sera si chiuse e Brando restò da solo, senza ancora un lavoro, in una città che giorno, dopo giorno si svuotava. Passava il tempo, il sole bruciava e Brando studiava e inviava curricula. Luna gli mancava al petto e alle mani e, per giunta, nessuna azienda si faceva sentire. Un mattino si decise e si mise in viaggio per Potenza, in fondo ci volevano solo quasi quattro ore di viaggio e Roma era vuota e lui aveva messo da parte ancora qualche centinaia di euro con cui poteva sostenersi durante il viaggio. L’avrebbe sorpresa, nella sua stessa città, sapeva che abitava in centro e che la sera intorno alle 21 e 30 amava farsi una passeggiata da sola. Viaggiò tutto il tempo immaginando quale colore potesse avere la pelle nascosta di Luna, come sarebbero stati i suoi occhi quando faceva l’amore; aveva l’umore a mille e si sarebbe nascosto per ore in un paese sconosciuto, fino al calare del sole, come i vampiri romantici e le storie di tanto tempo fa.

Quando arrivarono le 21 e 30 Brando uscì come si era proposto, quel piccolo paese di provincia gli sembrava il palco di una grande storia d’amore, occhi sconosciuti facevano avanti e indietro per il corso; oramai quasi vicino alla piazza principale lanciò lo sguardo in lontananza e riconobbe il piccolissimo vestito giallo senape di Luna, in un secondo il cuore gli partì a mille, ma quasi per esplodergli dal petto, Luna teneva mano nella mano un ragazzo nerovestito, di tanto in tanto si fermava e gli baciava il collo; Brando allora furtivamente svoltò in un vicolo quasi a scomparire, avrebbe voluto lanciarsi di corsa da un dirupo; a un certo punto però il suo smartphone cominciò a suonare:

“E’ il signor Giovanni Brandolotti?… Salve e mi scusi se chiamo a quest’ora, rappresento l’azienda X Informatica. Abbiamo ricevuto il suo curricula su Monster e saremmo interessati a un colloquio. Può presentarsi Lunedì mattina in via Ojetti, la commessa è per un importantissimo cliente, offriamo contratto a Partita IVA e la visibilità del lavoro dovrebbe durare 45 giorni all’inizio con ottime possibilità di rinnovo”

Anche una sola goccia di sole

Eravamo tutti accecati dalle paillette, avvolti in una grossa ragnatela luccicante; brillavamo dentro quei suoni come una perla protetta nella sua bivalve. Te l’avevo urlato tante volte nelle orecchie, Carlo:  “Noi siamo il futuro; figli di quelli delle tre pere al Brasile di Falcao, del paese più bello del mondo, del sole, del cibo buono”.  Il trailer dorato ci gonfiava al ritmo sincopato della dance, saremmo diventati ricchi e splendidi noi, tutta quella solarità ci stava bruciando la retina. Avevamo visto Maradona e ci eravamo innamorati. Non poteva fermarci nessuno ma, oggi, svapando da una sigaretta elettronica che risulta sexy come una persona imbustata in una blusa di tre taglie più grande, mi rendo conto che il termine svapare fa schifo e che noi che pensavamo a fare i giovani e basta mo siamo rimasti fregati. Ho quasi quarant’anni: non mi sono riuscito a comprare né una macchina, né una casa; il fertily day è passato da poco; la sigaretta elettronica fa schifo; una domanda però me la pongo: cosa c’è di davvero fertile nella mia vita? Ripercorro nella mia mente quei giorni, trovo nell’armadio il bomber arancione che mettevo nelle battaglie quando facevo l’ultrà; chissà come sarebbe stato diverso, Carlo, se fossi venuto a prenderti un giorno, sotto al palazzo tuo con il Sì grigio antracite modificato; avrei detto a tua madre, come al solito: “Signora sono Marco: c’è Carlo?”, allora tu saresti sceso e invece di andare sul motorino in due, senza casco, cantando “chi non salta è cenciarone”, saremmo andati sul motorino,in due, senza casco, per fare la guerra insieme a tutti quelli che sono finiti come noi (Michela: una laurea con lode, dottorato, abilitazione, dieci anni di insegnamento, un concorso vinto e precaria; Francesco, due lauree, dottorato, un concorso vinto e precario; Gianni, ingegnere informatico ex Co.Co.Pro, ex finta partita IVA, ex tempo determinato, neo jobacter). Non eravamo né stupidi, né ignoranti ma intanto, in un’altra dimora, all’interno di un palazzo con le tele di Arras, un vampiro che avrebbe governato il paese stava progettando di rubarci il sole. La gente come noi al sole gli deve la vita, il vampiro no, non ne sa nulla della vita che lo circonda; la gente il sangue se lo tiene stretto nelle vene, il vampiro lo succhia a tradimento e lo piscia nella tazza il sangue degli altri. Questa fantasia mi accende e mi mette in contatto con la mia parte un po’ ingenua e pop. Il fertily day è passato e la mia fertilità sta nella pelle e nei respiri di A quando ci amiamo o quando mio nipote mi fa giocare gli ultimi dieci minuti a FIFA 2016, perché anche se sappiamo entrambi che sono uno scarsone in quel videogioco, non mi farò segnare da nessuno per difendere la sua porta. La mia fertilità sta quando scrivo, cancello, scelgo vocaboli che innalzino o abbassino il tono, segni di interpunzione. La mia fertilità sta quando sorrido, perché i vampiri avranno sempre la peggio se si mettono a sfidare il sole e alla gente, fosse anche una sottile linea di crepuscolo, il sole non glielo leverà mai nessuno.

Quella parte di Facebook che ha paura degli immigrati

Qualche giorno fa ho pubblicato un racconto: una semplice storia del viaggio dei migranti dell’Africa nera. Il post, pubblicizzato su Facebook a mie spese, per vedere un po’ come veniva percepito dalla gente ha avuto diversi apprezzamenti ma, soprattutto fra i commenti, si è scatenato l’odio più profondo – questo il post su Facebook  -. L’accusa principale mossa al post può suonare più o meno così: “pensiamo prima ai nostri poveri, gli altri per quanto mi riguarda sono solo dei parassiti, vengono a rubarci il lavoro, non hanno voglia di fare niente” e tante altre amenità del genere. Chi sono gli altri in questione? Gente che non ha una vita nelle terre dove vive (tipo il Sudan o l’Egitto, l’Eritra, la Nigeria, il Senegal e via discorrendo); chi ha paura di questi profughi? I nostri connazionali, viene quasi da pensare che questa paura, attinga le proprie radici ad una bassa autostima dei difensori della patria, oltre che alla paura reale di non farcela – anche quando i profughi che vengono da noi sono spesso costretti a vivere nell’ombra o sono retaggio di bande criminali -. Spesso si legge che i profughi sarebbero qui a spese nostre, che vivano in non so quali resort e che siamo noi a pagargli tutto. Inutile dire che, come nei casi precedenti, documentare notizie fondate che smentiscano queste illazioni è un gioco da ragazzi, eppure queste storie si espandono a macchia d’olio. Ad espanderle sono spesso siti web la cui violenza è spesso stata bannata anche da Facebook o di dubbia appartenenza. Internet e Facebook, poi, sono una cassa di risonanza molto forte che fa da valvola di sfogo per queste persone, ed è così che un semplice post venga preso d’assalto; un post che è poi solo un racconto di letteratura impegnata: grande detonatore da sempre la letteratura. I racconti scavano negli archetipi della gente.

Q: scrittura di una lettura

«Ieri ho domandato a un pargolo di cinque anni chi fosse Gesù. Sapete cosa ha risposto? Una statua»
(Bernhard Rothmann)

Q è arrivato tardi nella mia libreria. Era il 2013 – o il 2014 – gli eventi di quel periodo cominciavano a confondermi non poco. La storia con la mia compagna era durata sei anni, di cui due di convivenza, ma il nostro rapporto vacillava tremando sulle piccole cose. La storia era macchiata, di lì a poco l’avrei persa, lo stesso stava accadendo per il lavoro e, in un certo senso, anche il rapporto con il mio paese di nascita stava subendo una frattura. In questi momenti ci si può abbandonare alla disperazione o provare a reagire; cominciai ad inviare CV per un nuovo lavoro, mi misi alla ricerca di una sistemazione e mi riproposi però anche di ridare vita alle mie passioni, una su tutte: la scrittura.

Q mi sembrava un mattone, lo ammetto, ma cominciava a riecheggiare nelle mie orecchie, perché una sera di tanti anni prima, durante un corso di teatro in un paesino di provincia, un attore che recitava con me ne aveva letto un pezzo. Quel brano mi impressionò subito ma passò molto tempo prima che mi decidessi ad acquistarlo. L’inizio fu ostico, “l’occhio di Carafa”, chi? E poi quel nome strambo dell’antagonista: Q; cosa!? E poi il protagonista come diavolo si chiamava? In quelle prime battute, sembrava che l’intrigo del libro collimasse con quella mia situazione poco chiara. Nel romanzo però c’era anche una forza, mano a mano che leggevo dei protagonisti, il modo di narrare degli autori che intrecciava le storie raccontate con la storia del mondo, quel modo di parlare in prima persona, con empatia, senza quell’aria da intellettuali cinici e distaccati che un po’ ironizzano, un po’ polemizzano – con il piglio di chi sta sempre lì a sposarsi una posa -, ecco… quelle cose lì, cominciavano a coinvolgermi. Il processo di lettura di quel romanzo avvenne allo stesso modo di un’altra narrazione definitiva che avevo letto anni prima, il Pendolo di Focault, dove con Wikipedia a portata di mano approfondivo ora la figura di Jacque de Molay, ora quella della Cabala; allo stesso modo facevo con Melantone, Ottilie e, soprattutto, magister Thomas. Non so se fra il Pendolo di Eco e Q vi siano veramente delle analogie, mi piace però pensare che quel modo di leggere, quei collegamenti ipertestuali, in fondo, collimavano in entrambi i romanzi. Luther Blisset è un progetto che deve molto alla globalità e al web e allo stesso modo il libro di Eco sembrava un ipertesto che mi riportava a Mallarmé, con quel modo di tracciare collegamenti tra il tempo e lo spazio, dalle cattedrali alle spine del mondo, dalle vicende che si spostavano dal mondo dei templari, all’era post-bellica agli albori della civiltà digitale. Tornando a Q e a quei giorni disastrati, l’epica del romanzo – quella che più tardi Wu Ming 1, nella sua definizione del NIE, tracciava come New Italian Epic -, la facevo sempre più mia. Un tipo di lettura del genere rischierebbe di essere ridotta alla stregua di un self-help se la si fa troppo personale, per fortuna però, oltre ad un ritorno adolescenziale che mi faceva balenare l’idea di tatuarmi il grido “omnia sunt communia” o la promessa che avrei trovato un nuovo lavoro e che quella non poteva essere la mia Frankenhausen, non ho mai abbandonato la letterarietà di quel romanzo. Quando arrivò la fine della rivolta dei contadini, quando Q mise appunto il suo primo piano di sabotaggio, io un lavoro nuovo l’avevo trovato e anche il romanzo si faceva più chiaro: aveva un nuovo protagonista, un nuovo periodo storico, nuove vicende da narrare. Chi ha frequentato internet prima di Facebook, potrà ricordarsi che a un certo punto, su molti forum, cominciava a comparire un nickname nuovo, era una sorta di subcomandante Marcos del popolo virtuale era Gert dal Pozzo. Chi ha letto Q non può non aver amato Gert: un personaggio letterario rivoluzionario arrivato in un’epoca in cui la rivoluzione non sembrava più possibile. A dire il vero, quell’istanza idealista poteva sembrare assurda solo ad un occhio distratto. Q esce nel 1999 e, a Seattle, proprio nel dicembre di quell’anno nasce il movimento No-Global. Devo essere sincero, quando ho sentito parlare per la prima volta del popolo di Seattle ero uno studente universitario molto idealista e poco speranzoso verso la mia generazione, quando venni a conoscenza delle istanze che giovani come me stavano attuando dall’altra parte del mondo mi brillarono gli occhi. La rivoluzione giungeva dall’altro mondo e, Gert dal Pozzo, arrivava a Munster per combattere con i suoi abitanti ad un sogno di libertà, mi si conceda il termine “comunismo” e speranza. Il sogno diventerà un incubo, Munster verrà tradita, Q avrà creato il suo secondo sabotaggio, i cattolici e i luterani si riprenderanno la città. Tutto è finito anche perché  i liberatori si sono trasformati in tiranni e Gert è costretto a lasciare Munster. Gert finirà come un animale braccato nei boschi e nei confini di Munster, si arruolerà con Jan di Batenburg – un uomo che sembra l’incarnazione della violenza e del sangue che sgorga putrefatto dalla ferita di un incubosogno -. Scapperà dalla crudeltà il capitano Gert dal Pozzo e cambierà nome, identità, ma non smetterà mai né di battersi per un sogno. Durante il racconto diventerà Tiziano, Ludovico, Ismaele e tutti i suoi piani saranno sabotati da Q, la spia, con quel suo nome che ricorda il Qoelet biblico. Alla fine ci sarà la resa dei conti, girovagando per mezza europa, la battaglia epica – sia mia che dal protagonista avranno il suo finale, altre pagine ci saranno se sarà lieto o meno -. Il resto della storia, ovviamente, continua e si sdipana lungo i moti del tempo.

Il viaggio degli angeli caduti

Chiara e l’alba, c’era da fare la colazione per i figli: un pentolino di latte di Lidl ché c’è crisi, cornetti, marmellata d’arance e la moka. Chiara Grande sognava una colazione al bar, come quella del sabato: invece niente. Si doveva risparmiare, certo se avessero vinto al SuperEnalotto allora sì!  E invece no, c’era da svegliarsi alle 5 e fare presto:  “A questo punto tanto vale prendere il Galaxy mentre la moka è sul fuoco”, si disse, “e vedere chi c’è su Facebook, postare il link di zia, che lo aveva condiviso a sua volta da Lamberto Paoli, che lo aveva preso direttamente da quel politico che, incazzatissimo, postava: vi piacerebbe una vacanza in un resort con pista da sci, piscina, solarium? Basta essere PRESUNTI PROFUGHI…

“Che schifo!”, pensò Chiara: “Dove siamo finiti!”, si disse, e condivise quel post; come darle torto, ci si fa il culo e queste scimmie con i burkini ci inquinano! AM-MAZ-ZA-NO! E noi? Con le nostre tasse gli dovremmo pagare la vacanza? Ma che ne sanno loro dei sacrifici che facciamo per mandare i figli all’università, in palestra, in Erasmus! Finì di preparare la colazione, si vestì, prese la macchina e guidò verso l’aeroporto di Caselle, dopo circa 10 km, lungo una strada a strapiombo sulla costiera ligure (perpendicolarmente in linea gravitazionale), su un incavo roccioso,  Chiara Grande sfrecciò via, inconsapevole, sopra  la grotta dove si nascondeva Abedì Pelé.

Abedì Pelé: 20 anni e un gelido agosto dentro. Si chiamava così perché quella notte, fra le onde del Mediterraneo, l’Etiope gli aveva chiesto: “Che nome avrai in Italia?”
“Il mio, J…”, gli aveva risposto; poi diverse risate: “Nessuno fa questo viaggio e conserva il nome”, disse l’Etiope, “visto che su questo gommone ci sono almeno 100 Mohammed Alì”… “101!”, urlò qualcuno sorridendo in un angolo su quella vecchia carretta inzuppata di gente. “Ecco… Vedi? Ti chiamerai Abedì Pelé!”
Quando ripensava a quel momento Abedì si sentiva nell’unico posto sicuro: era la sua buona notte. Ora il sole  lo gelava, due agenti di polizia gli stavano di fronte, lui, in quella grotta si sentiva un leone senza ruggito: “What’s your name?”, gli chiese uno dei due agenti; il ragazzo gli disse il nome e l’altro allora sorrise, ribattendo: “solo oggi, fra Ventimiglia e dintorni, abbiamo trovato Weah, Angloma ed Abedì Pelé, se ce li teniamo vinciamo l’Europa League; procedi con la solita solfa, chiedigli i documenti”. Provateci voi ad averceli i documenti quando sul vostro passaporto dovrebbe esserci scritto Eritrea. Se nascete in quel posto sarete in guerra a tempo indeterminato, l’unica salvezza che vi rimane è scappare, correre nel deserto più veloce del sole, perché quelli sono raggi che potrebbero carbonizzarvi, come è accaduto a Kidane, 18 anni, cugino di Abedì, preso e spedito a marcire in prigione, dormendo per terra in una cella talmente affollata che la carretta del mare degli scafisti è un transatlantico. Se tutto questo non bastasse sappiate che Kidane, a turno con gli altri detenuti, viene legato mani e piedi e bruciato al sole: ore, giorni. La notte, se sei uomo le guardie carcerarie ti picchiano sulla schiena con spranghe di ferro; se sei donna ti picchiano anche solo se non accetti il loro cazzo. L’unica salvezza è il viaggio, pensava sempre Abedì, l’unico incubo è il viaggio.

Il confine delle persone come Abedì è una linea che taglia in due l’inferno: da una parte l’Eritrea, poi il Sudan, al suo fianco un muro di 230 km costruito da Israele per lasciare le anime fuori dalla Promessa. Arrivò a Kassala, in Sudan, mangiando sabbia. Lo presero i poliziotti mentre dormiva in una grotta nel deserto. Lo spedirono in un campo profughi, un altro poliziotto lo vendette ad un mercante di anime e partirono con lo stomaco corroso dalla fame: destinazione Sinai, davanti al sogno più bello di tutti: il Mediterraneo.

La cosa più bella del mare, per quei ragazzi, era l’orizzonte. In un punto così lontano dove il sole danza non può mancare la  luce. Tra quel miraggio e la realtà invece vi erano le urla di Sarah, una perla d’ebano violentata tutte le notti, lasciando il telefono acceso così che i parenti potessero sentire il suo dolore e pagarle il viaggio. O la sofferenza di Alì, le cui ossa si frantumavano sotto le scudisciate dei mercanti di anime, sempre con il telefono acceso, sempre per quella cosa del riscatto. Se i parenti non avessero pagato quelle cifre potevi attraversare il mare vendendo i tuoi organi al mercato nero. “Una soluzione si trova”, dicevano gli assassini

Il resto è una grotta della costiera ligure abbandonata da poco. Una nuvola impenetrabile che avvolge il confine fra Italia e Francia. È il 24 di agosto del 2016, prima della notte che avrebbe spaccato il centro dell’Italia. Alcuni dicono che i tanti Weah, Angloma, Abedì insieme alle centinaia di Mohammed Alì, siano stati presi e condotti su un aereo, a Malpensa, anzi no a Caselle, nello stesso posto dove lavora Chiara Grande; destinazione Kathmandu, Sudan, rimpatriati all’inferno; altri invece dicono che non è vero, che noi a quella gente gli paghiamo la vacanza. Il sole continuerà a sorgere dal mare, Kidane è una bandiera di ossa consunte dai suoi raggi.