Q: scrittura di una lettura

«Ieri ho domandato a un pargolo di cinque anni chi fosse Gesù. Sapete cosa ha risposto? Una statua»
(Bernhard Rothmann)

Q è arrivato tardi nella mia libreria. Era il 2013 – o il 2014 – gli eventi di quel periodo cominciavano a confondermi non poco. La storia con la mia compagna era durata sei anni, di cui due di convivenza, ma il nostro rapporto vacillava tremando sulle piccole cose. La storia era macchiata, di lì a poco l’avrei persa, lo stesso stava accadendo per il lavoro e, in un certo senso, anche il rapporto con il mio paese di nascita stava subendo una frattura. In questi momenti ci si può abbandonare alla disperazione o provare a reagire; cominciai ad inviare CV per un nuovo lavoro, mi misi alla ricerca di una sistemazione e mi riproposi però anche di ridare vita alle mie passioni, una su tutte: la scrittura.

Q mi sembrava un mattone, lo ammetto, ma cominciava a riecheggiare nelle mie orecchie, perché una sera di tanti anni prima, durante un corso di teatro in un paesino di provincia, un attore che recitava con me ne aveva letto un pezzo. Quel brano mi impressionò subito ma passò molto tempo prima che mi decidessi ad acquistarlo. L’inizio fu ostico, “l’occhio di Carafa”, chi? E poi quel nome strambo dell’antagonista: Q; cosa!? E poi il protagonista come diavolo si chiamava? In quelle prime battute, sembrava che l’intrigo del libro collimasse con quella mia situazione poco chiara. Nel romanzo però c’era anche una forza, mano a mano che leggevo dei protagonisti, il modo di narrare degli autori che intrecciava le storie raccontate con la storia del mondo, quel modo di parlare in prima persona, con empatia, senza quell’aria da intellettuali cinici e distaccati che un po’ ironizzano, un po’ polemizzano – con il piglio di chi sta sempre lì a sposarsi una posa -, ecco… quelle cose lì, cominciavano a coinvolgermi. Il processo di lettura di quel romanzo avvenne allo stesso modo di un’altra narrazione definitiva che avevo letto anni prima, il Pendolo di Focault, dove con Wikipedia a portata di mano approfondivo ora la figura di Jacque de Molay, ora quella della Cabala; allo stesso modo facevo con Melantone, Ottilie e, soprattutto, magister Thomas. Non so se fra il Pendolo di Eco e Q vi siano veramente delle analogie, mi piace però pensare che quel modo di leggere, quei collegamenti ipertestuali, in fondo, collimavano in entrambi i romanzi. Luther Blisset è un progetto che deve molto alla globalità e al web e allo stesso modo il libro di Eco sembrava un ipertesto che mi riportava a Mallarmé, con quel modo di tracciare collegamenti tra il tempo e lo spazio, dalle cattedrali alle spine del mondo, dalle vicende che si spostavano dal mondo dei templari, all’era post-bellica agli albori della civiltà digitale. Tornando a Q e a quei giorni disastrati, l’epica del romanzo – quella che più tardi Wu Ming 1, nella sua definizione del NIE, tracciava come New Italian Epic -, la facevo sempre più mia. Un tipo di lettura del genere rischierebbe di essere ridotta alla stregua di un self-help se la si fa troppo personale, per fortuna però, oltre ad un ritorno adolescenziale che mi faceva balenare l’idea di tatuarmi il grido “omnia sunt communia” o la promessa che avrei trovato un nuovo lavoro e che quella non poteva essere la mia Frankenhausen, non ho mai abbandonato la letterarietà di quel romanzo. Quando arrivò la fine della rivolta dei contadini, quando Q mise appunto il suo primo piano di sabotaggio, io un lavoro nuovo l’avevo trovato e anche il romanzo si faceva più chiaro: aveva un nuovo protagonista, un nuovo periodo storico, nuove vicende da narrare. Chi ha frequentato internet prima di Facebook, potrà ricordarsi che a un certo punto, su molti forum, cominciava a comparire un nickname nuovo, era una sorta di subcomandante Marcos del popolo virtuale era Gert dal Pozzo. Chi ha letto Q non può non aver amato Gert: un personaggio letterario rivoluzionario arrivato in un’epoca in cui la rivoluzione non sembrava più possibile. A dire il vero, quell’istanza idealista poteva sembrare assurda solo ad un occhio distratto. Q esce nel 1999 e, a Seattle, proprio nel dicembre di quell’anno nasce il movimento No-Global. Devo essere sincero, quando ho sentito parlare per la prima volta del popolo di Seattle ero uno studente universitario molto idealista e poco speranzoso verso la mia generazione, quando venni a conoscenza delle istanze che giovani come me stavano attuando dall’altra parte del mondo mi brillarono gli occhi. La rivoluzione giungeva dall’altro mondo e, Gert dal Pozzo, arrivava a Munster per combattere con i suoi abitanti ad un sogno di libertà, mi si conceda il termine “comunismo” e speranza. Il sogno diventerà un incubo, Munster verrà tradita, Q avrà creato il suo secondo sabotaggio, i cattolici e i luterani si riprenderanno la città. Tutto è finito anche perché  i liberatori si sono trasformati in tiranni e Gert è costretto a lasciare Munster. Gert finirà come un animale braccato nei boschi e nei confini di Munster, si arruolerà con Jan di Batenburg – un uomo che sembra l’incarnazione della violenza e del sangue che sgorga putrefatto dalla ferita di un incubosogno -. Scapperà dalla crudeltà il capitano Gert dal Pozzo e cambierà nome, identità, ma non smetterà mai né di battersi per un sogno. Durante il racconto diventerà Tiziano, Ludovico, Ismaele e tutti i suoi piani saranno sabotati da Q, la spia, con quel suo nome che ricorda il Qoelet biblico. Alla fine ci sarà la resa dei conti, girovagando per mezza europa, la battaglia epica – sia mia che dal protagonista avranno il suo finale, altre pagine ci saranno se sarà lieto o meno -. Il resto della storia, ovviamente, continua e si sdipana lungo i moti del tempo.

Il viaggio degli angeli caduti

Chiara e l’alba, c’era da fare la colazione per i figli: un pentolino di latte di Lidl ché c’è crisi, cornetti, marmellata d’arance e la moka. Chiara Grande sognava una colazione al bar, come quella del sabato: invece niente. Si doveva risparmiare, certo se avessero vinto al SuperEnalotto allora sì!  E invece no, c’era da svegliarsi alle 5 e fare presto:  “A questo punto tanto vale prendere il Galaxy mentre la moka è sul fuoco”, si disse, “e vedere chi c’è su Facebook, postare il link di zia, che lo aveva condiviso a sua volta da Lamberto Paoli, che lo aveva preso direttamente da quel politico che, incazzatissimo, postava: vi piacerebbe una vacanza in un resort con pista da sci, piscina, solarium? Basta essere PRESUNTI PROFUGHI…

“Che schifo!”, pensò Chiara: “Dove siamo finiti!”, si disse, e condivise quel post; come darle torto, ci si fa il culo e queste scimmie con i burkini ci inquinano! AM-MAZ-ZA-NO! E noi? Con le nostre tasse gli dovremmo pagare la vacanza? Ma che ne sanno loro dei sacrifici che facciamo per mandare i figli all’università, in palestra, in Erasmus! Finì di preparare la colazione, si vestì, prese la macchina e guidò verso l’aeroporto di Caselle, dopo circa 10 km, lungo una strada a strapiombo sulla costiera ligure (perpendicolarmente in linea gravitazionale), su un incavo roccioso,  Chiara Grande sfrecciò via, inconsapevole, sopra  la grotta dove si nascondeva Abedì Pelé.

Abedì Pelé: 20 anni e un gelido agosto dentro. Si chiamava così perché quella notte, fra le onde del Mediterraneo, l’Etiope gli aveva chiesto: “Che nome avrai in Italia?”
“Il mio, J…”, gli aveva risposto; poi diverse risate: “Nessuno fa questo viaggio e conserva il nome”, disse l’Etiope, “visto che su questo gommone ci sono almeno 100 Mohammed Alì”… “101!”, urlò qualcuno sorridendo in un angolo su quella vecchia carretta inzuppata di gente. “Ecco… Vedi? Ti chiamerai Abedì Pelé!”
Quando ripensava a quel momento Abedì si sentiva nell’unico posto sicuro: era la sua buona notte. Ora il sole  lo gelava, due agenti di polizia gli stavano di fronte, lui, in quella grotta si sentiva un leone senza ruggito: “What’s your name?”, gli chiese uno dei due agenti; il ragazzo gli disse il nome e l’altro allora sorrise, ribattendo: “solo oggi, fra Ventimiglia e dintorni, abbiamo trovato Weah, Angloma ed Abedì Pelé, se ce li teniamo vinciamo l’Europa League; procedi con la solita solfa, chiedigli i documenti”. Provateci voi ad averceli i documenti quando sul vostro passaporto dovrebbe esserci scritto Eritrea. Se nascete in quel posto sarete in guerra a tempo indeterminato, l’unica salvezza che vi rimane è scappare, correre nel deserto più veloce del sole, perché quelli sono raggi che potrebbero carbonizzarvi, come è accaduto a Kidane, 18 anni, cugino di Abedì, preso e spedito a marcire in prigione, dormendo per terra in una cella talmente affollata che la carretta del mare degli scafisti è un transatlantico. Se tutto questo non bastasse sappiate che Kidane, a turno con gli altri detenuti, viene legato mani e piedi e bruciato al sole: ore, giorni. La notte, se sei uomo le guardie carcerarie ti picchiano sulla schiena con spranghe di ferro; se sei donna ti picchiano anche solo se non accetti il loro cazzo. L’unica salvezza è il viaggio, pensava sempre Abedì, l’unico incubo è il viaggio.

Il confine delle persone come Abedì è una linea che taglia in due l’inferno: da una parte l’Eritrea, poi il Sudan, al suo fianco un muro di 230 km costruito da Israele per lasciare le anime fuori dalla Promessa. Arrivò a Kassala, in Sudan, mangiando sabbia. Lo presero i poliziotti mentre dormiva in una grotta nel deserto. Lo spedirono in un campo profughi, un altro poliziotto lo vendette ad un mercante di anime e partirono con lo stomaco corroso dalla fame: destinazione Sinai, davanti al sogno più bello di tutti: il Mediterraneo.

La cosa più bella del mare, per quei ragazzi, era l’orizzonte. In un punto così lontano dove il sole danza non può mancare la  luce. Tra quel miraggio e la realtà invece vi erano le urla di Sarah, una perla d’ebano violentata tutte le notti, lasciando il telefono acceso così che i parenti potessero sentire il suo dolore e pagarle il viaggio. O la sofferenza di Alì, le cui ossa si frantumavano sotto le scudisciate dei mercanti di anime, sempre con il telefono acceso, sempre per quella cosa del riscatto. Se i parenti non avessero pagato quelle cifre potevi attraversare il mare vendendo i tuoi organi al mercato nero. “Una soluzione si trova”, dicevano gli assassini

Il resto è una grotta della costiera ligure abbandonata da poco. Una nuvola impenetrabile che avvolge il confine fra Italia e Francia. È il 24 di agosto del 2016, prima della notte che avrebbe spaccato il centro dell’Italia. Alcuni dicono che i tanti Weah, Angloma, Abedì insieme alle centinaia di Mohammed Alì, siano stati presi e condotti su un aereo, a Malpensa, anzi no a Caselle, nello stesso posto dove lavora Chiara Grande; destinazione Kathmandu, Sudan, rimpatriati all’inferno; altri invece dicono che non è vero, che noi a quella gente gli paghiamo la vacanza. Il sole continuerà a sorgere dal mare, Kidane è una bandiera di ossa consunte dai suoi raggi.

 

Sangue, lacrime e fantasmi, nella Roma del rione Regola

WP_20160313_10_59_54_Pro_LI

L’appartamento dove visse Beatrice Cenci, nell’omonima via al civico 7/A

Il caso ha voluto che questo weekend io lo abbia passato in un angolo di Roma a ridosso del Ghetto. Un luogo al centro del rione Regola dalla toponomastica abbastanza poco confondibile:  via dell’Arco de’ Cenci, Lungotevere de’ Cenci, Monte de’ Cenci (dove si erge la chiesetta di San Tommaso ai Cenci) e poi, in uno spiazzale dove un parcheggiatore abusivo decide per una manciata di piccole monete in metallo chi (e come) può lasciare l’automobile, il mio piccolo appartamento, in via Beatrice Cenci, al civico 7. Poco più in là, dalla mia dimora, nello stesso palazzo, che sembra racchiudersi intorno al quartiere come un’antica fortezza, si scorge un’entrata con un grande arco, sorretto da un balcone e, più su, una piccola finestra decorata con festoni rinascimentali. In quella stanza, così teneramente femminile, abitava Beatrice, mostrando al mondo quel poco che poteva di una brevissima femminilità tormentata.

 

I turisti che spendono il loro tempo, nella grandissima bellezza romana, difficilmente riusciranno ad assaporare questo piccolo anfratto di Roma che, come tutte le immagini private, restano nascoste e un po’ furtive, agli occhi dello smartphone o della lente, ormai old style, della camera fotografica. In fondo, quello non è che un sobborgo di Roma abbastanza vuoto, un piccolo budello che scorre, appartato, dal marciapiede trafficato di via Arenula, dove l’immaginario vuole che signore imbellettate, passeggino velocemente per recarsi all’Argentina. In questa piccola piazza, poco o niente: un ristorante dalla parete tappezzata di adesivi di TripAdvisor, il Gambero Rosso o altri certificati di eccellenza o un negozio che appare un inganno sin dall’insegna: l’Astrologo, articoli religiosi e, in fine, una chiesa, un Arco ed una strada che si perde in un piccolo monticello privato.

WP_20160311_20_36_34_Pro_LI

L’Arco de’ Cenci, ovvero il luogo in cui qualcuno vide la Madonna piangere

Restiamo alla Chiesa e all’Arco e cerchiamo di proiettarci fuori dal tempo; togliamo gli scooter, le luci al neon ed ogni sorta di modernità da quella strada. Siamo nel 1546, Beatrice non è ancora nata e due giovani stanno giocando sotto quell’arco (anche se un decreto del Monsigor governatore lo ha proibito). Uno dei due avrà raggiunto quel luogo, molto probabilmente, dall’antica via delle Zoccolette: una strada che, prima della costruzione di quella che è oggi via Arenula, era molto più estesa. Le zoccolette erano le orfanelle del conservatorio dei Ss. Clemente e Crescentino “istituito per le povere orfane, denominate – comunemente – zoccolette”. Le zoccolette, però, erano anche le prostitute perché quelle orfane, una volta dismesse dal conservatorio, non avevano altro destino se non quello di finire sul marciapiede. Percorrendo quella strada, dunque, i due giovani, dopo aver attraversato un sottile percorso simbolico che li lega sia alla spiritualità che ai bassifondi dell’anima si ritrovarono sotto l’arco de’ Cenci a giocare come sappiamo… ben presto il gioco degenerò, i due cominciarono ad insultarsi (dalle parole ai fatti, a volte, il percorso è miseramente breve): entrambi cominciarono ad azzuffarsi, uno dei due, fa finire il compagno a terra e, in preda all’ira, brandisce un coltello e sta per finire il rivale; quest’ultimo, vistosi oramai più morto che vivo, chiede all’altro di risparmiarlo, in nome della Vergine Maria, raffigurata in una piccola icona, proprio sotto l’arco. L’uomo allora ha pietà dell’altro, in nome della Vergine e, mentre lo sta aiutando a rialzarsi. questi raccoglie il pugnale “et in premio d’avergli donata la vita, empiamente l’uccise”.
Tanto crudele e vile fu il gesto del balordo che, si narrò che l’icona della Vergine sotto l’arco cominciasse a piangere “abbondandissime lagrime”; per via di quel fatto oscuro e per il miracolo delle lacrime i fedeli vollero erigere una Chiesa, fu così che nacque Santa Maria del Pianto.

 

Dulcis in fundo

La candela irradiava il suo volto di calda bellezza. Io e Sabina ci conoscevamo ormai da vent’anni ed eravamo una cosa sola. Fu proprio allora, mentre mi sentivo avvolto alle sue sensazioni, che fra un pasto e l’altro, gli chiesi:

“Ti va una torta?”
“Salata?”, rispose lei
“Non credo… non mi sembra il posto”, dissi, un po’ confuso
“Hai ragione, cioè, sono una stupida, dico… la serata, la luna, gli antipasti a forma di cuore sì, insomma… sei stato davvero dolce”
“Ehm.. No”, dissi quasi in imbarazzo
“Cioè?”
“Intendevo…”
“Intendevi?”, incalzò lei
“Che… visti i prezzi sul menù… non credo sia salata”
Lei se ne stette in silenzio e si guardò intorno, una bambina bionda con un vestitino bianco corse dalla madre per farsi abbracciare, la bimba sorrideva e accarezzava un principe giocattolo, di pezza, io abbozzai un sorriso, Sabina si mise le mani sul volto, sorrise anche lei e disse: “Sei sempre il solito…”
“Mi ami anche per questo, direi…”
“Che ore saranno?”, mi chiese
“L’ora di un bacio”, risposi
La bimba bionda cominciò a sorridere, lanciando il suo principe in cielo e riprendendolo con le sue manine, due tre, quattro volte, sempre più in alto… A un certo punto, un lancio troppo forte, il principe toccò il soffitto ed ebbe un rimbalzo strano, per un attimo la bambina non sorrise più, il principe volò via dalla terrazza, si accasciò sull’asfalto e, nemmeno il tempo di urlare che una macchina lo investì, spiaccicandolo al suolo.
Fu in quel momento che Sabina scese le scale del ristorante e si precipitò nella via, avrebbe preso quel principe, lo avrebbe ricucito come sapeva fare lei e sarebbe tornata, perché quella era l’ora del bacio e della dimostrazione dell’amore che mi voleva. La bimba piangendo lasciò il ristorante, una coppia di giovani anziani se ne andò parlottando con il figlio, degli esami che avrebbe dovuto dare ed altro, a notte fonda, sentii un rumore di passi che salivano le scale, mi girai con il sorriso dell’amore scemo, era il cameriere, diceva che avrebbero dovuto chiudere e che la mia compagna aveva pensato a saldare il conto. Feci per lasciargli la mancia, disse che non c’era bisogno.

I cenci di Beatrice

In nome del popolo Italiano, la corte di Assise di Roma, all’udienza dell’11 settembre 2015, nel processo instaurato nei confronti di Dei Cenci Beatrice, mediante la lettura del dispositivo ha emesso la seguente sentenza: visti gli articoli 575 e 577 del codice di procedura penale, dichiara l’imputata colpevole di parricidio nei confronti di Dei Cenci Francesco, senatore della Repubblica Italiana e la condanna alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno di anni 1. L’udienza è sciolta.

Nemmeno in quel momento il volto di Beatrice si piegò al dolore. Algida e a modo suo determinata, attese le guardie che la portarono via dall’aula: una donna aveva sfidato la Repubblica e i suoi uomini.
Uscii dal palazzaccio di giustizia e andai al bar di fronte. Presi un caffè e un cornetto alla crema di nocciola, mi piaceva quel posto perché non aveva le solite paste di cartone pressato e i camerieri erano gentili e sorridenti. Diedi un’occhiata al quotidiano che suonava alquanto beffardo: “Il governo approva la proposta dell’ala progressista: più zone rosa per facilitare le manovre di parcheggio alle donne”.

Il caso di Beatrice lo seguii tutti i giorni. Andavo al palazzaccio dopo il lavoro, da quando mi ero lasciato con la mia ex avevo dato più spazio al mio hobby preferito: scrivere racconti. Non voglio essere uno scrittore, preferisco scrivere quando e come mi piace. Lavoro come consulente software, mi occupo di altri linguaggi: ASP.NET, C#, HTML e diverse sigle strane. Scrivo perché sento l’esigenza di immaginare costruendo degli arabeschi di suono intorno al mio scoreggiante mondo interiore.
I giorni dunque li passavo cercando storie e quella volta, entrato nell’aula, il racconto di questa donna bellissima, dai lineamenti dolci e dall’elegante posa rinascimentale, mi si impresse, così alla mente, che potrei riscriverlo a memoria. Io non credo che fu il tran-tran mediatico che un omicidio di un senatore della Repubblica aveva giustamente scatenato nell’opinione a farmi avvicinare al caso. Ero interessato più come una cosa umana. Cominciai a rivivermi Beatrice e le sue parole:

“Mi chiamo Dei Cenci Beatrice, vostro onore, e sono nata a Petrella Salto (La Petrèlla, come la chiamavamo da bambini), il 6 febbraio del 1977. Ho vissuto in questo paesino, in provincia di Rieti, fino a 10 anni, quando con la famiglia mi sono trasferita a Roma, in un palazzo con un’architettura del primo Novecento progettato dal Setti in stile eclettico, qui vicino, in via Crescenzio. Papà non c’era mai, aveva i suoi obblighi di politica e quando c’era, stava sempre con quelle persone che contano: i calabresi, di cui non mi diceva niente. Ho passato più tempo a guardarlo in TV mio padre che non a casa. L’unico momento di consolazione ce l’avevo sui marciapiedi di Roma, quando attraversavo ponte Sant’Angelo, con le sue statue che immaginavo mi dicessero, “Buona passeggiata, Bice” mentre camminavo per poi prendere Lungotevere Tor di Nona, passando davanti alle vecchie carceri, per andarmene a leggere e a studiare nella piccola biblioteca privata su via Tomacelli, al civico 15″.
“Potrebbe smetterla di raccontarci tutta la sua vita, signorina”, la interruppe l’avvocato dell’accusa
“Signor avvocato, lasci parlare l’imputata”, lo bloccò il giudice. E Beatrice continuò così, dopo aver ringraziato a vostro onore.
“Chiedo scusa all’avvocato, passerò alla narrazione di fatti più concreti, ma con il mio nome, con il mio cognome, ho spesso pensato che 500 anni fa, in quelle carceri, siano stati rinchiusi i miei fratelli… tornando a cose più concrete… abbandonai Roma nel 1990. Papà mi iscrisse in un college all’estero, a Sherborne, una cittadina inglese non troppo distante da Oxford. Prima però accadde che giunsero i carabinieri a casa. Venni mandata in fretta e furia nella mia camera da mia madre. L’indomani avevo un biglietto per l’aeroporto di Gatwick e l’iscrizione per uno dei più esclusivi istituiti europei”.

Dopo questa confessione proseguirono altre testimonianze, tesi e fu deciso che Beatrice doveva ripresentarsi una settimana dopo. Passando per via Crescenzio, con il mio motorino per tornarmene a casa, vidi diverse troupe televisive assediate sotto il palazzo che ormai, per i media, era la dimora eclettica della Strega di Prati.
Tornato a casa ripresi i documenti che avevo lasciato al lavoro circa l’architettura di un software da progettare. L’applicativo doveva essere costruito su una piattaforma Microsoft e allora cominciai a pensare la base dati su SQL Server 2012, in dubbio se demandare la realizzazione a una progettazione SOA con l’utilizzo di WCF o meno. Passò poco tempo e chiamai A., per chiederle se avesse voluto mangiare una cosa con me, mi propose l’Osteria del Cavaliere a via Alba, mi ci fiondai al volo. Stavo bene con A., non mi capitava dai tempi della mia ex., ci potevo parlare di tutto e mi metteva a mio agio. Mangiai una pasta e fagioli formidabile e bevvi bicchieri e bicchieri di Genziana. Al ristorante ci immaginavamo le vite di quelli che ci stavano seduti a fianco (abbiamo dato per spacciata una coppia di vegani seduti in fondo alla sala e ci siamo inventati che quelli di fronte erano una famiglia del Molise che erano andati a trovare il figlio studente, fuori corso, pochi esami, in architettura). Dopo cena tornai di nuovo nella mia stanza e pensai a quella storia che avevo sentito al palazzaccio. Beatrice, così bella, veniva accusata di omicidio, lei che era stata spedita d’improvviso all’estero, quella notte che i Carabinieri entrarono a casa. Buttai il pacchetto di Chesterfield blu sulla piccola scrivania, andai in cucina, piano, piano, per non svegliare i coinquilini, lasciai perdere le architetture SOA, presi una Tennet’s dal frigo e mi misi a scrivere.

Beatrice. Quella storia dei carabinieri. la ragazza che abbandona il paese, la madre. Doveva avere pure qualcosa la madre e allora mi venne una data in mente: 9 settembre 1990, pensai che non andava bene, non mi piaceva che quella storia cominciasse sotto il segno della Vergine, allora cambiai, 9 luglio 90! Feci una piccola ricerca su Google per vedere se c’erano partite di calcio, non andava bene nemmeno quel giorno era infatti subito dopo la finalissima dell’Olimpico fra Argentina e Germania durante le notti magiche. Meglio prima,  meglio l’8 luglio, quando qualsiasi maschio del mondo guarda comunque la finale dei mondiali, fosse anche il più importante politico della nazione, il rutto libero,  in quel frangente, è quanto meno imprescindibile.

Allora immaginai poche frasi scritte sul diario di Lucrezia Petroni, madre di Beatrice, datate, per l’appunto, 8 luglio 1990

Il futuro ministro guarda la partita, Bea andrà via domani. Non sopporto, ma sopporto

E poi ancora altre frasi…

Dopo l’eliminazione dell’Italia contro l’Argentina, mio marito rientrò tardissimo, era mascherato e visibilmente sconvolto. Credo abbia fatto uso di cocaina tutta la notte. Entrò e disse a voce alta: “Entrate e godetene tutti, questa è la pellaccia vecchia di mia moglie offerta in sacrificio per voi”, lo seguirono cinque uomini, africani e uno che aveva l’accento calabrese. Mi legarono al letto, mi entrarono ovunque e poi vennero, uno alla volta, sul mio volto, corsi in bagno per lavarmi la faccia. Mio marito mi prese allora per i capelli e mi costrinse a guardarmi allo specchio. Ero completamente ricoperta di sperma, poi lasciò la presa, il mio volto cadde sul lavabo, lo sperma mi chiuse gli occhi. Non emisi nessun grido durante quella violenza, sopportai piangendo, perché se mi fossi messa ad urlare avrei creato scandalo. Mi sentivo come se fossi andata in sposa a Barbablù, ero ingenua quando dissi quel sì di bianco vestita, mi attirò il suo fascino, il suo potere, la foga animalesca che aveva quando facevamo l’amore.

Seguirono diverse udienze per il caso Dei Cenci e tanti testimoni si avvicendarono. Oltre a ciò che andava in atto al Palazzaccio, cominciai ad avvicinarmi alle vicende di quella nobildonna romana del Cinquecento, che si chiamava per l’appunto Beatrice Cenci e la cui anima si narra che proprio l’11 settembre, ogni notte, cammini con la testa in mano sul ponte Sant’Angelo. Lessi tutto quanto c’era da leggere: dai link su Wikipedia, alle narrazioni di Dumas, Stendhal, a quella palla di racconto storico e monumentale che ne fece il Guerrazzi. Fui stregato dal dramma crudele che ne rappresentò Antonin Artaud con il suo Les Cenci. Una notte sognai che mi tagliarono la testa, fui contento che era solo un incubo, mi lavai la faccia e andai al lavoro, alle 18 c’era un’altra udienza con Beatrice, ce l’avrei fatta ad assistere.
Entrai e Beatrice aveva da poco preso la parola “… fu lì che cominciai a vedere documenti strani che circolavano circa la costruzione di nuovi quartieri nella periferia romana, vostro onore. La cosa colpì subito il mio interesse e chiesi a mia madre.
“Non so niente figlia mia, non lo so se quelle ditte calabresi di cui dici furono davvero le stesse con cui collaborava tuo padre”, rispose mia madre.
E allora Beatrice continuò così:
La mia posizione rilevante all’interno della commissione europea, conquistata anche grazie ai soldi di mio padre, mi poneva di fronte ad atti di espropriazione e giri loschi. Mi sentivo come la sposa ingenua a cui Barbablù dà ogni ricchezza, purché non usi mai quella chiave per aprire la porticina, quella che avrebbe svelato un lago di sangue con tutti i cadaveri delle mogli a marcire.
C’era in me, una voce che diceva, Bicetta devi indagare e un’altra, quella della bimba nata sotto la protezione del senatore, che cominciava a piangere angosciata.
Il mio rientro in Italia, vostro Onore, lo conoscete bene. Mio padre aveva sentito che cominciavo ad indagare circa quelle situazioni strane di appalti e tangenti. Si mostrò comunque benevolo e mi disse di riposarmi un po’ e di scendere a Roma, saremmo stati un po’ insieme e avremmo mangiato in quel ristorante al Governo vecchio che mi piaceva tanto quando ero ragazzina e che ancora era lì a sfornare piatti e piatti della tradizione  con quella sua gustosissima pasta con cozze e pecorino.
Mi dissi che in fondo potevo tornare in Italia, che li avrei rivisti e mi piaceva l’idea di rincontrare le statue giocose di ponte Sant’Angelo, la vecchia biblioteca di casa dove avrei rovistato fra i miei libri per ricercare le lettere che mi scriveva il mio spasimante: Olimpo Calvetti. Quel ragazzo lo conobbi durante una rappresentazione scolastica che fecero alla Camilluccia, non mi piaceva fisicamente, ma il suo sguardo mi diceva che mi avrebbe seguito anche nelle più remote carceri.
Arrivai a Fiumicino, presi il trolley e mi avvicinai verso un tizio che aveva un cartello con su scritti il mio nome e il mio cognome, pensai subito che fosse un autista che mi aveva mandato mio padre. Le nostre presentazioni mi rassicurarono:
“salve, signora Beatrice, suo padre non è potuto venire a prenderla perché impegnato con il lavoro”
“Sì, immagino sia molto occupato”, risposi
“Non si preoccupi, si libererà per cena, la porteremo noi a casa, siamo i suoi autisti privati, ci segua pure”
Erano in due, sembravano una scorta, vestiti di nero, muscolosi, facevano una fatica assurda sia a darmi del lei che a parlare in italiano corretto, ma non erano stranieri e la cosa mi faceva ridere. A un certo punto però non ricordo più niente. Non so per quanto avevo dormito e non so dove potevo essere, mi alzai con una puzza di sangue che mi diede subito alla nausea. Vostro onore avete creduto di apprendere tutto dalla TV, da Internet e dalla radio circa quel rapimento in Calabria, ma ci sono cose che ancora non ho la forza di ricordare”, disse Beatrice il cui volto era ormai imploso orribilmente in una maschera di angoscia
“Va bene così”, disse il giudice impietosito.
“Essendo però questo evento, anche se traumatico, molto importante ci riserviamo per ora di sospenderlo, lo riprenderemo in un secondo momento”
“grazie, vostro onore”, disse Beatrice con un filo di voce che si faceva spazio fra i suoi singhiozzi
A quel punto immaginai che venne chiamata a deporre la madre di Beatrice, Lucrezia Petroni, la quale esordì dicendo:
“vostro onore, anche per me è difficile ricordare quanto ascoltai da Beatrice durante il suo esilio nella Locride, voglio leggervi però le torture che mia figlia dovette subire da questi esaltati sequestratori, che ce la tornarono in vita, ma profondamente ferita nell’animo, perché come diceva mia figlia, fino a quando il senatore non avrebbe pagato la ricompensa, loro le avrebbero fatto vivere le torture sacre, quelle papali, perché un prigioniero di alto rango doveva avere un trattamento adatto. E su queste parole, vado a leggervi, se mi consentite quanto mi raccontò mia figlia e quanto io, tracciai sul mio diario privato:

La tortura dei fischietti

Ho aspettato diverso tempo prima di chiedere a Beatrice maggiori spiegazioni circa le strane foto che ci inviavano i rapitori. La prima mostrava le sue dita martoriate, piene di grumi di sangue rappreso. Lei mi disse che quella foto rappresentava solo l’inizio delle tremende torture che subì. Quel giorno arrivarono, mi raccontò,  delle persone incappucciate, bruciarono un santino e iniziarono a recitare un salmo dedicato ai tre cavalieri sacri alle cosche mafiose: Osso, Malosso e Carcagnosso. Uno di loro prese a intagliare un giunco da cui ricavò delle piccole striscioline simili a fischietti, gliele conficcarono fra le unghie e la pelle e lasciarono la mia piccola bambina con quelle cose che le dilaniavano le carni non si sa per quanto tempo…

La tortura del fuoco

In un’altra foto vidi la pelle di mia figlia con fortissime escoriazioni di bruciature, quello che mi raccontò Beatrice ha del raccapricciante, il cui solo pensiero di scriverlo, mi attanaglia lo stomaco come una lama che sventra le mie carni. Dopo il rituale del santino e del salmo votivo, uno dei tre uomini accese un piccolo braciere, avvicinarono i piedi di mia figlia alla distanza giusta per farle sentire dapprima un forte calore che si faceva sempre più infuocato fino a bruciarne la pelle. Beatrice ricorda che mentre facevano questa pratica, in quella macelleria dismessa, vicino a tutte quelle bestie appese qualcuno la scherniva dicendo che quella sera l’avrebbero mangiata servita con patate novelle. Non contenti di ciò, prima la semi denudarono, poi le spensero dei mozziconi di sigarette accesi sul seno e sulle mani.

La tortura della veglia

In un’altra foto Beatrice ci si mostrò con gli occhi scavati e un’espressione del volto che sembrava scoprire dei nervi tesi come se avessero steso al sole le sue vene. Pensai subito che non riusciva più nemmeno a vivere e quello che mi raccontò si rivelò ancora più atroce di ogni mia possibile immaginazione. Questa tortura a differenza delle altre non cominciò con il solito rituale ma Beatrice, da come mi disse, si ritrovò immersa durante il sonno in un secchio di acqua gelata. Continuò così per svariate ore, ogni volta che provava a chiudere gli occhi perché stremata e bisognosa di sonno, proprio quando stava per dormire però era costretta a risvegliarsi perché la sua testa veniva immersa in un secchio di acqua gelata.

La tortura della corda

Fra tutte le torture, nell’antica Roma papalina, questa della corda era la più temuta. Dolorosa fino all’inverosimile, gli sventurati che si sottoponevano a questa tortura, anche se innocenti confessavano la propria colpevolezza perché la morte al confronto poteva apparirgli come una pagana benedizione. La foto che ci arrivò è quella che mai nessun giornale, mai nessun sito web, mai nessuno insomma, ha avuto la forza di pubblicare. Una donna, mia figlia, se ne rimaneva incatenata, semi nuda, con i lividi ovunque, in una pozza di vomito, sangue e rassegnazione. Anche la più femminile delle qualità dell’essere umano, l’anima, era stata stuprata. Beatrice mi disse soltanto: “mamma, sono rimasta appesa a un gancio, con la bocca coperta da un nastro isolante, vicino alla carcassa di animali squartati ed ormai, quasi, in putrefazione”

Dopo il racconto della madre tornai a casa e decisi di finirla questa storia, se fossimo stati ad Hollywood un produttore mi avrebbe imposto un happy ending, credo che lo stesso avrebbe fatto un editore se io fossi stato uno scrittore professionista. Ho comunque la fortuna e il portafogli vuoto (oltre che lo stile) di un dilettante e posso dunque concedermi anche il diletto di infrangere le regole del gioco, limitando a dirvi che ci fu un dettaglio importantissimo grazie al quale Beatrice scoprì la connessione fra il padre ed il suo rapimento in Calabria. La ragazza e i suoi nervi non ressero a questa rivelazione e, con l’aiuto della madre, mentre il padre dormiva rescisse di netto, con un colpo di mannaia la testa dell’uomo. Ho disseminato questo dettaglio lungo il racconto, forse, oppure vi chiedo di inventarvelo voi, lettori, perché se un lettore è tale, mentre legge con la fantasia scrive anche una sua versione della storia. Beatrice fu condannata all’ergastolo, la madre a trent’anni di carcere. Ancora oggi l’omicidio è giustamente un reato penale, ancora oggi, duemila e passa anni dopo la nascita di Cristo i potenti sono legittimati a fare i potenti e le donne, purtroppo, alla sopportazione eterna.

Recording (racconto senza intreccio)

Ieri ho passato tutta la notte a registrare parole che mi esplodevano sulle labbra: pallottola… bolla… bobina… bacio… a questo punto mi sono fermato e ho chiuso gli occhi al caso. Avevo ormai 70 anni da quella volta in cui la mia lingua si intrecciò a quella di lei, poi mi era preso un tremito che si era trasformato in carezza, lei mi sorrise con gli occhi e restò sbigottita con le labbra. Era un’estate di un anno che non ricordo e ancora c’era qualche altra persona, oltre me, sulla faccia della terra… forse… può darsi infatti che le strade siano piene di persone ancora oggi, dovrei spegnere il registratore, scostare questa tenda e vedere se c’è la luce. Decido però di continuare a registrare come quella prima volta che cominciai, fanciullo, ancor prima della letteratura, ancor prima delle mostre di Matisse.

A vedermi potevo sembrare solo, ma c’erano già delle storie dentro di me, so che mi capite… ne avete avute diverse anche voi… quella volta mi intervistai, lo feci ancora durante il mio passato ma erano interviste inquinate, piene di zeppe di moda, cinema, letteratura e altri veleni sparsi. Il tempo passava e io mi allontanavo da me, inventavo tagli di capelli improponibili, cercavo un posto da qualche parte del mondo, perché è così che mi era stato insegnato, perché anche se a 16 anni te ne stai a cantare le canzoni dei Velvet Underground sotto la doccia, arriva la zia scema che al telefono dice: “Che sta facendo?… Sta cantando… Lo manderemo a Sanremo” e poi lì giù, risate, tante, che ti si ficcano sotto la pelle come una scarica di agopuntura al vetriolo.

Passano gli anni e la sensibilità ci accompagna, avete voglia voi a vivere come rockstar, l’oggettistica con cui vi circondate non fa niente di voi, così come tutte quelle sedute in palestra, arriva il giorno che state aspettando la metro, fuori c’è il sole ma voi non lo vedete e allora state con il vostro smartphone e l’occhio al cartellone che indica il prossimo treno. E’ un attimo. Davanti a voi c’è il treno e dietro di voi c’è quello che per tutto il tempo aveva tic strani e frasi assurde e girava e girava gli occhi, basta un attimo, una frazione, una spinta. La vidi decomporsi sotto quello sferragliare di lamiera, i miei occhi ancora bruciano.

Registrazione completata. Capitolo IV. Giornata nove.

Oggi immagino che sia una bella giornata, come quella volta a Vienna quando lo vidi per la prima volta. Era un parente lontano, un po’ dandy, guardava mio padre con occhi sconcertati – senza concerto – quando mi rimproverava e non lasciava libere di esprimere le mie passioni. Quella volta, quel tipo, prima che tornassi in stanza con i miei, mi disse: “Tieni…” e mi sorrise. Era l’Isola del Tesoro, rilegatura in brossura grecata, fogli un po’ ingialliti, gli sorrisi, capii anni e anni più tardi quel valore… Quella cosa che dalla musica un po’ puoi scappare e forse pure dal teatro, ma se vuoi raccontare una storia, devi starci tu, con tutte le scarpe e la fanghiglia che ci si è attaccata alla suola. I tuoi nervi devono stare lì, altrimenti fai quelle trame così fighe fatte di storie che si intrecciano: angeli, demoni, tre metri sopra il cielo un paio di chilometri sotto la tazza. Nelle fogne, di quelle storie, non si vede l’autore, ma in molti restano a bocca aperta sognando che sì… sognando che insomma… vogliono vivere come quei fighi lì

Ai fighi che fanno i figati inventandosi una vita che vorrebbero vivere, preferisco i bambini che guardano, oltre le stelle, i fuochi di artificio

Registrazione non so cosa, giornata quasi al termine, ogni monologo dovrebbe abbandonarsi e ripetere parole e io dovrei andare ancora più in profondità dentro quella brossura e il sole di Vienna e sotto terra fra le membra deturpate di un treno in corsa.

Ho capito questa cosa quasi a 40 anni, quando non mi andavano più i locali, gli aperitivi, i film porno. La notte in cui è esplosa Parigi. Il giorno che scoppiò la guerra. Ho cominciato a tollerare zero, le donne che cercavano una rivalsa sugli uomini criticandoli il più possibile. Le donne, quelle che pensavano solo alla loro bellezza, mi smosciavano il cazzo se non avevano niente da trasmettermi. Non valeva manco la pena pensare di trombarsele. Avevo bisogno di cose sostanziose, sentimenti veri, ricordi puri, la bulimia estetica fine a se stessa mi aveva assolutamente stufato. Potevo sentirmi incredibilmente a posto con il mio registratore e la mia stanza e i ricordi e la sostanza di qualche parola esplosa come fosse bolla… bobina… botola… bacio…

La mula di Parenzo

“Miech! Micheze! Fémo tardi! Fémo tardi!”
“Oh Jacheze, questo tempo non smette mai!” e con la solita scenetta, il solito giro di boa, Miech e Jakec (o Micheze e Jacheze come si chiamano fra di loro), se ne uscivano dalla torre campanaria del Municipio, facevano la loro passeggiatina da statuette di bronzo e giù! via! Doi colpi di martel alla campana e Trieste e l’Adriatico, il porto, il mare e dall’altra parte della città, su un autobus che si affacciava sul Golfo dove stavo seduto io, fra puzze di grappin evaporanti e puzzette varie, tutta quella terra si ricordava che esisteva. Il problema a Trieste non era il tempo però ma lo spazio. Da sempre ci abitavano i Visicic slavi, i Wursltemberg tedeschi, gli Schiavoni, i Veneziani, le belle mule, gli istriani che prima erano italia e ora non xè più, i matti e Nonno Fischio che saliva sull’autobus vestito ancora da marinaio, si sedeva davanti al mona di turno e gli raccontava sempre e sempre la solita storia che più o meno fa così.
“No xè più come un tempo, no!”. L’inizio era quello, tipo il C’era una volta che ti aspetti nelle fiabe, insomma, una cosa che si deve rispettare, perché quella storia lì, raccontava di una canzone popolare di cui poi attaccava più o meno, in prima persona, in questo modo:
“La mula de Parenzoooo gà messo su botegaaaa….”
“La cognossi questa, John”, gli disse Nonno Fischio (che nel frattempo era immerso nei ricordi) rivolgendosi a quello che lui considerava uno scaricatore di porto che arrivava dall’Inghilterra per scaricare nessuno sapeva cosa e nessuno sapeva dove
“Whats?” rispondeva quello e il nonno sempre allo stesso modo ma con l’aspetto da figon, bagnato dal sole del mare gli diceva che si chiamava “Walt! Walt! non Uòzz!”. Poi Rudy e quel gran mona di Sbrodolòn, prima si mettevano a ridere e poi gli chiedevano al nonno: “Che la vendeva? Che la vendeva?”
“Chi? la mula? Tutto! Tutto! Tutto la vendeva: prezzi bòni!”, e infine tutti quanti con Giòn che non capiva niente, si mettevamo a cantare quella storia della mula di Parenzo che tutto la vendeva e che tutto la vendeva e che il Nonno aveva sentito fischiettare dagli Schiavoni mariani de Venèsia che eran venuti a portar non so che e non so ben dove.
A un certo punto però, mentre il coro del Nonno e degli scaricatori, si era interrotto per fare un sorso di grappa al mirtillo che avvampa le vene sul naso, si sentì la voce di Paolin il pesciarolo che li aveva sentiti cantare e che cominciò ad urlare “non aveva il bacalà! Non aveva il bacalà! Dannato mare, perché non m’ami più?”. Nonno fischio allora pensò che in fondo ci poteva stare che la ragazza di Parenzo che vendeva tutto a prezzi boni non g’avesse il bacalà e visto che l’era bona per essere bona, pensò che il bacalà gliel’avesse potuto portare lui e allora tutti cantarono di nuovo: “La mula de Parenzo / gà messo su botega / de tutto la vendeva / fòra che il bacalà / perché non m’ami più?”. Per un po’ di tempo quella storia finì così e allora Nonno fischio scese dall’autobus, ma quel giorno, voltandosi vide un piccoletto che in bicicletta e con un giornale dietro la bici, pedalava come un indemoniato verso piazza Garibaldi. “Ah! Che ricordi”, pensò, e pensando e ripensando, gli venne in mente il giovane Karl-Gustav-Bicichlettansen che gli amichetti chiamavano KGB per risparmiare tempo e che era stato campione di ciclismo per ben 88 volte nella corsa ciclistica Trieste-Muggia. KGB era un portento, lineamenti asburgici, furbizia slava, rigore sovietico, cazzimma napoletana. I maligni pensavano che quelle gare KGB le vinceva perché la organizzava suo padre che si chiamava V (ma che i suoi amici per assaporare di più quel nome bellissimo chiamavano Vattelapeschen Gustav Karl Biclettonen). V, secondo alcuni, faceva gareggiare il figlio contro tutti gli storpi e quelli che si credevano Napoleone al manicomio di Domio, ma in verità Nonno Fischio lo sapeva: KGB vinceva perché prima di ogni gara faceva scorpacciate di fagioli con le luganiche e allora con i piedi dava gas e con il culo pure e con la voce cantava pure una marcetta tipo Radetzky di quelle che si sentivano a Piazza Garibaldi. Pronti, partenza, via e già alla prima curva sul lungo mare di Sistiana erano già tutti carbonizzati da quella nube tossica che si era alzata per via dei fagioli con luganica serviti dall’osteria della signora Marietta.

Nonno Fischio si commosse: una roba leggendaria tanto che a quella canzone della Mula di Parenzo ci andò a finire sana, sana la canzone tipo marcetta austriaca che cantava KGB: “Me piasi i bisi con le luganiche, Marietta damene per carità!”.

Da lì in poi, Nonno Fischio, quella storia di quella canzone non la racconta più: sale le scalette della piccola osmilza in centro (per chi non la conoscesse quella è un’osteria veramente di basso borgo) e si ordina le sue grappe, i vinelli e si guarda i quadri con il mare e si tiene stretta una cartolina che gli hanno spedito da Parenzo.

Ogni storia popolare, però, è una storia di tutti e allora si narra che a un certo punto agli americani quella cosa di KGB non gli piaceva proprio e allora via, raus! Censura, niente bisi, molto meglio i veneziani bigoli con la salsiccia luganega e quella storia cambiò, ma non fu l’unico cambiamento, di lì a poco divenne na Cambogia. C’era a chi piaceva la mula bionda e allora ci mise una tinta, chi voleva la polenta, chi invece la preferiva bruna e aveva per moglie una serva. Addirittura quella canzone che partiva dalla Trieste degli austriaci fino agli anni 20 del 1900 ancora la cantavano e la modificavano, perché le canzoni popolari sono come le leggende e tutto resta uguale anche se tutto cambia. Ogni autobus, un Nonno Fischio che sale e conta lu cunto della storia di Parenzo e di KGB, ogni autobus un mona, poi un’osmilza, Wurlstemberg che non capisce niente e allora prende quella storia e la modifica, tutti, gli americani ogni quarto d’ora, Micheze e Jacheze… Femo tardi! Femo tardi! Le statue di bronzo e i rintocchi da Piazza Unità.

La sagra delle sagre

Ciacicchie e broccoletti
Porchetta abbruciacchiata
Orchestra di ‘mbriagoni
E danza strasudata.

Alla sagra delle sagre
La notte s’arrigìra
Si gira, rigira e schiatta l’orologio
Alla sagra delle sagre
La notte s’arrigìra
Si gira, rischiatta arrigìra all’orologio.

L’organetto scaca
poi prende fiato
Na tarantella di marziani
sotto ai fari allampadati

La gonna vola via
Si vede il mondo intero
Quasi vola la voliera
All’uomo in canottiera.

“Mi conceda questo ballo
(ma che cul! ma che cul!)”
“Ma son qui col maresciallo”
(e che cul! e che cul!)
“Signorina lei ha begli occhi”
(ma anche il cul anche il cul!)
“Sì, però lei non mi tocchi!”
(porco du! porco du!)

E danza la sottana
danza la canottiera
Lei sa di muschio e timo
Lui di ciacicchie e cabernet.

“Signorina in questi anni
ma addò cazzo era ita
una donna come a lei
è una donna per la vita,
Signorina in questi anni
non l’ho proprio vista mai
e che cazzo dico io
proprio a me tutti i guai?”

“Mi conceda questo ballo
(ma che cul! ma che cul!)”
“Ma son qui col maresciallo”
(e che cul! e che cul!)
“Signorina lei ha begli occhi”
(ma anche il cul anche il cul!)
“Sì, però lei non mi tocchi!”
(porco du! porco du!)

E gli occhi fanno
sparadan-dandan-dan-pin-pin-pong
Come a un macello a un casino che non si sa
Lei che è donna d’altri tempi balla con un cafoncello
Una pezza sudata che gli sembra un violoncello

“Son contenta di ballare
(ma che è gruoss, ma che è gruoss)”
“Anche a me mi fa piacere
(e vaffanculo al maresciallo)”
“Non mi voglio più fermare!”
“Dillo a me! Dillo a me!”
“E la voglio anche baciare”
“Ecco a me! Ecco a me!”

(libera traduzione da La Balera di Van De Sfroos, il merito è ovviamente il suo io mi sono divertito)

Memoriale di un’alzata di tacchi

Non ci fu un giorno dopo, capito? Bastava chiederselo il mattino prima e quei due non avrebbero voluto nient’altro che vedersi. Non ci avrebbero creduto nemmeno loro, forse. Non ci fu un giorno dopo. 
Eppure non era mancato quasi niente: la voglia di sentire che sapore avesse la loro pelle, il bisogno necessario di rubarsi baci davanti a tutti o semplicemente di nascosto. In ascensore. Le risa. La musica. Le prese in giro, il dirsi le cose che sentivano. L’aprirsi il cuore e le sensazioni. Eppure. Proprio quando nessuno, manco loro se l’aspettavano, il loro quadro è caduto.
Quella storia del quadro che cade quando meno te l’aspetti ce l’aveva raccontata proprio bene Danny. Danny Boodman. T.D. Lemon. Novecento. A loro era capitato così. Non c’era un pianista grandissimo e non c’erano le note dell’oceano. C’era il resto di una metropoli e il resto poteva anche sparire se loro si baciavano. Bastava poco per fargli sentire a tutti e due la voglia di ficcarsi nella carne, bastava una tenda immaginaria, una capotte, un sedile, poi si poteva anche stare in una delle strade più trafficate della città. Non sarebbe esistito nient’altro: solo i loro respiri.
Solo in quel momento. La crudeltà sembrava poter essere sconfitta.
E invece
Finì che fu lei ad alzare i tacchi. Lui un po’ se l’aspettava e un po’ la richiamò. Ma più la richiamava e più quel sipario si era chiuso. Non c’era tempo nemmeno per gli applausi. Gli stessi che si erano goduti all’inizio in un teatro che non ti immagini in una Roma spersa fra i vicoli. Con il teatrino che era continuato dal Giappo, lei non c’era mai stata e lui ce la portò e parlarono per tutta la serata in inglese con un cameriere e in italiano con un altro. Poi non ci fu più il tempo nemmeno per un finale di partita. Ci fu un’alzata di tacchi. La crudeltà si prese il suo spazio per narrare un’altra storia. Una nebbia che non ti aspetti risucchiò la primavera.