Cum Nimis Absurdum – parte prima –

Lu rusciu de lu mare (o del vuoto generazionale)

La notte, in questo lembo fra la campagna e il mare, c’è un angolo in cui svaniscono – anche solo per un istante -, i falò incendiari del ferragosto, la porno-pizzica bagnata all’angolo dei vecchi borghi, il suono rutilante dei tamburelli o dell’odore dei pezzetti di cavallo o delle viscere. La notte, in un preciso particolare momento di ispirazione, puoi trovare qui il tuo angolo dove giocare anarchicamente con le sensazioni: dipingendo con un colore il profumo, ritrovando l’odore nel tatto o l’udito nella vista della schiuma delle onde del mare. Sono momenti che non ti danno nemmeno le canne, forse il sesso, l’amore, quello stato di abbandono e di trance con le tue emozioni del tuo corpo nell’universo empatico delle emozioni del corpo dell’altro… Forse può qualcosa l’arte, come fa il poeta nei lunghi periodi, annodati, parole su parole quasi alla ricerca di un momento di estraniazione, che però se non sei bravo si inceppa, finisce per suonare male, si aggroviglia come un’espressione algebrica persa fra parentesi e parentesi, tante, troppe, da rimanerci intrappolati, ghettizzati e allora devi essere bravo per deframmentare, scomporre, cercando di dare nuove forme, nuovi volti, come faceva quell’artista spagnolo che solo dopo aver scoperto le minuziose linee della pittura classica poteva rompere con le tradizione; come faceva quello che portava il mio stesso nome, ovvero io avevo un soprannome uguale: Picasso. Chiamatemi Picasso.

Arriviamo in Salento e prendiamo in affitto una casa zona Torre Pali. Staremo quindici giorni. Giorgia dice che abbiamo tutto quello che ci serve: “pesce fresco a nastro, pizzica, pizzica, pizzica, una tele per Rio 2016 e tutte le prese che vogliamo per gli smartphone”. Giorgia dice anche che tanto Picasso non sarà contento, ma mica me lo dice a me; no! Lo posta su facebook: la mia felicità è una glossa a margine di un selfie estivo con un libro di storia moderna in mano.
La prima mattina siamo andati in spiaggia con la decapottabile del figlio del Doc: un regalo del papà per la laurea in Scienze politiche. Allunghiamo verso San Foca per una colazione a frutti di mare, in quei pochi secondi concessi alla radio era partita la canzone di Rovazzi, il figlio dell’Avvo ha detto di togliere quella monnezza, ci siamo fatti il viaggio a suono di punk rock, reggae e trip hop, ma ho avuto l’impressione che l’andare a comandare ci fosse rimasto appiccicato addosso, aveva perso la spontaneità di quella cantata da un ragazzino rapper e si era trasformato in qualcosa per quarantenni che sorseggiavano Negramaro, sfoggiavano Fred Perry, sfruculiavano molluschi e frutti di mare.
Eravamo i figli dei ricchi, senza nessun lavoro però – se non quello ereditato dal mestiere dei genitori -, senza nessuna casa però… Eravamo quasi tutti comunisti però…
La cosa cominciava a prudermi. A un primo sguardo superficiale potevo sembrare uno snob del cazzo. La verità è che non sto bene. Ho quarant’anni, non venti e questo divertirsi a forza mi deprime, più sorrido perché c’è da farlo e più mi vengono manie suicide: più faccio fatica di restare negli eventi che contano, ascoltando la musica che conta, a rimorchiarmi più tipe possibile e più mi viene il vomito. Mi chiamano Picasso per i miei lineamenti sgangherati, la faccia a incudine ma io vorrei trovarmi a un altro soprannome. Mi piace molto Underdog, suona bene tipo Loser ma non è inflazionato, devo allontanarmi dai miei amici, questa mania di essere smart mi fa sembrare un deficiente e tali mi sembrano pure loro, i miei amici, quando lo fanno. Oggi il figlio dell’Avvo per far ridere le ragazze ha preso in giro un ragazzo sensibile, facendo così si sente una star, a me mi sembrava Bonolis che scherzava con persone senza un minimo di sensibilità.
Basta. Ho individuato a pochi passi dall’appartamento un piccolo bar vicino al mare. Ha una luce sempre accesa e un tavolino, andrò lì con il mio libro di storia e una stuoia. Sembra la notte buona per il silenzio….

… continua …

Breve memoriale di un condannato al patibolo [Jan Van Batenburg]

Salire al patibolo e sentire il tuo odore che marcisce sottoterra. Un condannato a morte è un poeta, scalino, dopo scalino, con le tue ombre e i tuoi fantasmi che stavolta hanno vinto, ti stringono i polsi, ti segano la pelle, bruciano sotto le tue ferite. Sei stato schiacciato dai tuoi incubi, Jan, ed ora ti aspettano. La verità è che se c’è vita dopo la morte, sta nel disgregarsi del tuo corpo ricoperto dal suolo, diventerai concime – merda -, oppure le tracce di te se le porteranno nel ventre i vermi che si sono cibati della tua decomposizione. Jan di Batenburg, anabattista, hai ammazzato, stuprato, versato sangue ed ora, questo pubblico non vede l’ora di vederti penzolare e benedire la tua carcassa con un segno della croce. La verità è che non c’è croce. Ho ammazzato in nome di Dio solo per essere nato dalla parte sbagliata del mondo. Lutero, le gilde tedesche, Papa Paolo III – che è più potente del re di Inghilterra -, non hanno bisogno di sporcare le loro lame con il sangue; non hanno bisogno di portarla una spada: loro hanno il mondo e nessuno potrà giammai levarglielo di mano. Io ho sgozzato gente, tre anni fa, nel monastero di Oldeklooster, correva l’anno 1535. Di lì, in poi, per tre anni, io e i miei pezzenti vivemmo come lupi nei boschi. Sul corpo, tatuata, la spada che avrebbe ammazzato tutti coloro che si sarebbero opposti alla nostra religione. Ricordo il rumore del ferro e del fiotto di sangue, l’agonia negli occhi di tutti coloro che non volevano appartenere alla nostra Gerusalemme, al mio regno. Jan Matthys, Jan di Leida, Knipperdolling, Hans Krechting sono tutti nomi che avremmo vendicato. Tutte le urla dei ribelli: attaccati ad un palo con un collare di ferro, straziati per un ora con pinze incandescenti e uccisi con un colpo di daga al cuore dovevano essere vendicati. Tutte le gocce di sole che avrebbero bruciato il corpo esposto nelle gabbie della cattedrale di San Lamberto, sarebbero state vendicate. La gente di Münster non guarda più il cielo perché quelle gabbie con i loro corpi a marcire restano ancora appesi davanti alla cattedrale. E solo Dio sa ancora per quanto tempo. Ma non c’è più tempo per Dio, i miei attimi si sgretolano ma questa agonia sembra durare un’eternità. Ammazzeranno Jan di Batenburg, ma presto ci saranno i batenburghesi e poi ancora altri ed altri, fino forse alla fine di questo mondo, si esalteranno credendosi nuovi profeti ma ciò che vorranno è solo un regno perché la vita li ha messi nella parte sbagliata del mondo (o forse come nel mio caso di nobile ad un passo dal potere ma mai troppo potente per poter dominare). Ecco. Sputo. Una guardia mi colpisce e cado a terra, la gente urla contenta per il gesto della guardia, mi alzo, li guardo, zittiscono, qualcuno mi lega una corda al collo. Jan di Batenburg, figlio illegittimo di un nobile di Gelderland, sindaco di Overijssel, nuovo David, catturato a Villvoorde nel 1538, sta per morire, altri seguiranno il suo esempio, perché a nessuno serve il regno dei cieli ma tutti bramano una corona in terra.

Amore Lusitano

“il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”
(Giovanni 1,1-18)

Anversa 1534

Ho visto la mia terra spaccarsi e mostrarmi le viscere. Lo zampillio del sangue nelle vene. Onde di mare innalzarsi nei suoi occhi, fuoco divampare dai nostri baci insaziabili che non si risparmiavano un lembo di pelle. Sono stato Joao Rodriguez, il figlio di Chabib, ora potete chiamarmi Amato… Amato Lusitano: dottore, giovane raccoglitore di veleni.
Il profumo di Elle mi raggiungerà ovunque, anche qui, nella città più ricca d’Europa che dorme perennemente sotto un cielo di nubi nere. I miei molti nomi e le città che mi porto dietro direbbero di me che potrei essere un trasformista, un viandante, eppure in me dormono soltanto tantissimi uomini: ognuno con un suo Dio diverso da adorare, l’unica certezza sono le labbra di Elle, poi proprio come voi, potrei essere chiunque all’occorrenza: soltanto l’amore, le mie carni nude, potrebbero svelare a chi vorrà saziarsene il nucleo primordiale dove il sangue si mescola con le sensazioni.
Anversa: voci di marinai si fanno più rumorose del canto dei gabbiani. Ricchi mercanti e donne agghindate, guardano facchini spaccarsi la schiena per caricare le navi. Sono arrivato da poco, il mio giovane uomo: alto, biondo, con robusti baffi, mi ha prelevato dal cargo di arance battente bandiera lusitana.
“Dottore”, mi ha detto, “sono Hans, benvenuto ad Anversa”
“Ciao Hans e grazie di tutto”, gli ho detto e insieme, discorrendo, ci siamo incuneati nei vicoli della città più ricca d’Europa
“Non ringraziatemi dottore, speriamo solo che tutto possa migliorare”
“Per noi ebrei, Hans, la vita è diventata difficile, prima in Spagna, ora in Portogallo, i re cattolici ci chiamano nuovi convertiti, il popolino usa un termine più affettuoso, ci dicono marrani, porci, davvero carini, no?”
“Qui ad Anversa, dottore, i cattolici sono sempre di meno, se la cosa può consolarvi”.
Sorrido, faccio per dire qualcosa, ma il mio nuovo amico mi interrompe bruscamente: “non so però quanto effettivamente possa davvero consolarvi… Quella che Lutero ci aveva promesso come una grande riforma, una protesta contro le simonie, sembra essere soltanto una base logistica per arricchire i principi tedeschi e tutti quei ricconi del nord che ci sono anche qui”
Nel frattempo, camminando e camminando, siamo arrivati a casa di Hans, sono stanco: è sera, sua moglie ci sta preparando una zuppa, una bile amara percorre il mio sangue, ma almeno qui, per un po’, non avrò gli occhi delle spie cristiane che mi sorvegliano per vedere se dico le preghiere ebraiche, se faccio stregonerie (come pensano loro), se bestemmio, pregando il mio Dio. Almeno qui, per un po’, la gente del posto vorrà farsi curare da un dottore laureatosi a Salamanca. A Lisbona i cristiani, preferivano la peste o tutte le epidemie del mondo: un cristiano non poteva essere curato dal medico dei marrani.
Ciotola, zuppa, Hans riprende il discorso sui luterani, dice che è stato a Frankenhausen. A sentire quel nome resto di sasso. Lo guardo, sembra che una lacrima gli sgorga dagli occhi…
“Di sicuro avrete sentito, dottore, quel che Lutero disse per quella battaglia. Io se ancora ci penso i nervi mi prendono tutto il corpo, sembro collassare”.
“So tutto, Hans: Lutero vi ha chiamato saccheggiatori scelerati, rapinatori di castelli e conventi che non appartenevano a voi. Ha detto anche che vi siete meritati la morte del copro e dell’anima, che siete una banda di assassini”

Hans scaraventò un bicchiere a terra: “Eravamo solo dei contadini, stanchi di sopportare i soprusi dei potenti principi di Germania. Negli occhi di Magister Thomas, nella sua vita, nella sua morte, riecheggerà per sempre la coscienza di un popolo che ha provato a ribaltare le logiche del potere forte. Anche a Münster ci hanno provato gli anabattisti a prendersi la città, ma quei due Jan, hanno fatto diventare un inferno il sogno di libertà che il popolo si portava con sé. Ora dicono che ce ne sia un altro, si chiama Jan van Batenburg, è un brigante vero e proprio, si aggira per le contrade di Münster e saccheggia, stupra, ammazza tutti quelli che non sono di fede anabattista. Dottore, ma lei davvero crede che valga la pena curare questa razza di uomini di merda che siamo tutti?”
Non dissi niente, ascoltai attonito.

Dopo cena mi ritirai nella mia stanza. Ripensai al discorso di Hans, alla fame dei contadini e alle loro rivolte soppresse con il sangue; alla persecuzione degli ebrei che venivano scacciati via, senza più una patria, avrebbero viaggiato lungo un percorso lontano dalle proprie terre. L’editto parlava chiaro, abbandonare il Portogallo, portandosi dietro, in una sacca, anche le ossa dei parenti morti. Pensai alla riforma di Lutero, una religione che andava contro i poteri forti per farsi anch’essa potere forte; pensai a quello che era accaduto a Münster: un manipolo di uomini aveva combattuto per instaurare il primo governo socialista e teocratico ma, arrivati al potere,  i liberatori  si sarebbero trasformati nei più feroci oppressori. Pensai alle parole di Hans e dormii. Lisbona mi apparve in sogno con gli occhi di Elle. La prima immagine che ho di lei è sempre un sorriso e poi, nascoste, le nostre labbra che si sfiorano: la sua lingua, la mia, intrecciate. Un bacio, un sovrapporsi di lingue che sembrano nascondere parole come “accoglimi”… “riscaldami”… “dimmi che in questo momento non morirò mai”… “dimmi che in questo momento posso essere totalmente me stesso”… “dimmi che in questo momento posso essere totalmente me stessa”… poi un abbraccio, a questo punto a parlare sono le nostre carni: nudità; io che mi fondo entrando dentro di lei, io che le dono tutto me stesso nel suo corpo; lei che, accogliendomi, dona se stessa… anche così, di nascosto, nei meandri di un sogno. Nella notte. Anche se durante quella notte Lisbona trema. La terra si spacca insieme alle nostre carni. Sono stato Joao Rodriguez, il figlio di Cahib, Amato, il dottore, eppure in quel momento di amore io non ho un nome; sono puro spirito nella carne. In quel momento lì siamo un sogno, non ci sono distanze, mi aggrappo ai suoi seni e sembro succhiare il suo latte come per nutrirmi del suo amore. Lisbona trema insieme a noi, in un unico grande fremito che sembra scoprire i nostri nervi, i nostri brividi, le anime, l’unico mondo di vita possibile.

Non avrai altro Dio

“Cum nimis absurdum” – Poiché è oltre modo assurdo

Arriviamo in città dalle poche vie liquide rimaste: il Tago, l’Oceano. Lisbona è spaccata dal sole. Non piove da mesi. Siamo tanti, ed ogni giorno, al porto, sembra essersi riunita tutta l’Europa. I ricchi mercanti di zucchero ci mandano schiavi negri a caricare le navi.
Io avevo fatto amicizia con alcuni di loro, uno mi era particolarmente simpatico, diceva di chiamarsi João e di vivere in un buco ad Alfama.
Avevo pensato a lui quando mi ero imbarcato da Istanbul, gli avevo promesso una bambola ricamata per sua figlia.
Era il 18 Aprile, 1506. Quel giorno, João non venne, si presentò un portoghese, diceva di chiamarsi Ruiz Manuel, feci per stringergli la mano come gesto amichevole:
“Non tocco quei porci musulmani nemici di Dio”, disse. Restai attonito.
“Indicami pure dove dobbiamo caricare il pepe e le altre spezie; ora”, gli dissi ciò che voleva e gli chiesi se conoscesse quel João dell’Alfama. “Se l’è preso la peste alla scimmia negra! Domani però finalmente Lisbona verrà liberata dal Signore Dio. Ci sarà una grande messa pasquale al convento di Santo Domingo. Accadrà il miracolo ci hanno detto i frati: basta siccità! Basta carestie! Quei rottinculo porci schifosi degli ebrei marrani che ci hanno portato la peste se la riporteranno a casa loro… sempre che Dio voglia concedergliela… una casa”.
Finì il lavoro e disse che il padrone sarebbe passato fra tre giorni. Restai sgomento da tutto quell’odio. Salutai Ruiz Manuel e mi preparai per andare a mangiare qualcosa per la sera, in un’osteria frequentata solo da marinai, a Rossio.
Lisbona era poverissima, ma anche ricchissima.
Passeggiando per la rua Nova, si incrociavano le carrozze dei nobili spagnoli, quelli portoghesi invece la percorrevano a cavallo, seguiti a piedi dai loro schiavi. In città era vietata la tratta delle persone, ma qui “gli ordini del re duravano dalla sera al mattino” e gli uomini strappati all’Africa o alle Indie, venivano spesso venduti al mercato. Capitavo spesso in questa città, amavo percorrere le sue strade, immergermi nelle piccole botteghe che vendevano i prodotti delle Indie: conchiglie, ceramiche, madreperla. Anche il clero era ricchissimo, nel convento di São Vicente de Fora, alcuni monaci avevano schiavi e un’infinità di ricchezza, lo stesso dicasi per São Domingo, la chiesa dove all’indomani sarebbe accaduto il miracolo.
Entrai nell’osteria e mi colpì un tavolo di marinai che avevo di fronte. Inglesi, tedeschi, zelandesi: tutti insieme a bere birra e a confabulare qualcosa. Ne conoscevo un paio, brutti ceffi, Heinrich von Waldeck e Jan di Middelburg: due avanzi di galera che avevo incrociato spesse volte durante i miei viaggi nelle Fiandre o ad Amburgo. La mia posizione all’interno dell’osteria poteva dirsi strategica, riuscivo ad osservarli restandomene defilato; fra di loro c’era anche il mio uomo: Ruiz Manuel. Capii quasi niente di quello che si dicevano, tranne di un rogo che era stato appiccato in quel porcile di sinagoga dove si radunavano i Marrani, qualche giorno fa e di una forte lite fra portoghesi e nuovi convertiti, per la rua Nova, la domenica di Pentecoste. Consumai la mia zuppa di pesce, bevvi due bicchieri di Porto e tornai a casa, all’indomani sarei andato anche io nella Chiesa del miracolo.

Mi svegliai presto e mi avviai verso la sacra cerimonia. I nobili portoghesi, che spesso vanno a messa tutti agghindati come se stessero andando a prendere un’udienza con il re: erano pochissimi. Dall’oste avevo appreso che per via della peste, le personalità più importanti avevano lasciato Lisbona. Re Manuel stesso aveva abbandonato Lisbona rifuggiandosi ad Avis.
Una folla di mendicanti, appestati, poveracci assistevano alla santa messa pasquale. In un angolo, emarginati come se portassero il male peggiore dell’umanità intera, c’erano quelli che i portoghesi chiamavano i Nuovi convertiti: i marrani. Il clima era fra i più speranzosi, l’atmosfera altissima durante la messa. Il prete invocò più volte l’aiuto del Signore, fino a quando, a un certo punto, il crocefisso della chiesa di São Domingo non si illuminò.
Pausa.
Occhi che brillano.
“Miracolo”, grida una donna
“Miracolo!”, gridano poi ancora altre voci e tutti insieme, in coro: miracolo, miracolo, miracolo! La folla sembrava brillare, per un attimo, di una fede che illuminava le coscienze. Ma fu un attimo, per l’appunto, perché un marrano che era giunto fino a lì da Lindo disse:
“Ma non è un miracolo, gente, è la fiamma di un cero che, attraverso la copertura d’oro dell’ostensorio si riflette sul braccio di legno: tutto qui”.
Il gelo si impadronì di nuovo di quella sala. Sentii qualcuno digrignare fra i denti: “il Signore Gesù ha mosso la sua santissima mano per indicare che qui dentro, fra noi, c’è chi lo bestemmia” e poi si alzò all’unisono un grido fortissimo: “morte al blasfemo!”
L’ebreo di Lindo venne accerchiato, colpito, spinto fuori dalla Chiesa. Una folla disumana fatta di uomini e donne gli fracassarono le costole con i loro bastoni, il povero uomo riversava in una pozza di sangue, la testa maciullata. Non contenti i portoghesi cominciarono a smembrare quel uomo e a dargli fuoco. Altri marrani scapparono per le vie polverose della città. Una folla percorsa da una religiosissima follia inseguì gli ebrei. Donne, bambini, uomini, vennero presi a calci, pugni, sprangate. La follia durò tutta la giornata, ma nessuno poteva mai immaginare cosa sarebbe accaduto il giorno seguente.

Tornai sulla nave e non chiusi occhio. Se non fosse che avrei dovuto concludere l’affare sarei ripartito subito per Istanbul. Al mattino del giorno seguente mi incamminai con gli occhi gonfi e il passo incerto. Una voce mi fece però tremare da lontano.
“Eresia! Eresia!”
Non potevo credere alle mie orecchie: i frati domenicani stavano spingendo la popolazione lisbonese contro i marrani. Venne messa anche una ricompensa a chi avesse ammazzato i nuovi convertiti. La cosa non sfuggi di certo a von Waldeck, Jan di Middleburg e a tutti i balordi approdati nella città Lusitana. Squadriglie di ogni tipo per tre giorni, si infilarono nelle case degli ebrei. Violentarono le loro donne, rubarono i loro bottini e soprattutto sparsero sangue, tanto sangue. Ho visto donne con un bambino in braccio gettate giù dalle finestre, ebrei infilzati da lance, bruciati vivi, smembrati. La piazza delle esecuzioni capitali puzzava di sangue come una grossa macelleria a cielo aperto. Finì tutto soltanto quando re Manuel, avvertito della follia che sgorgava per le strade di Lisbona, mandò un piccolo esercito guidato dal regedor Ayres da Sylva. I due frati che avevano sollevato all’odio vennero degradati, strangolati e inceneriti sul rogo. Furono giustiziate altre trenta persone che erano state viste pugnalare, stuprare, smembrare e bruciare i marrani.
Von Waldeck e Jan di Middleburg riuscirono a scappare via e a tornare nelle loro case con il bottino. Ruiz Manuel pendeva da una forca. Io riuscii a tornare ad Istanbul, chiudere il mio affare ed appuntare queste storie di sangue sul mio diario di bordo.

Lisbona, AD. 1506

Sangue, lacrime e fantasmi, nella Roma del rione Regola

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L’appartamento dove visse Beatrice Cenci, nell’omonima via al civico 7/A

Il caso ha voluto che questo weekend io lo abbia passato in un angolo di Roma a ridosso del Ghetto. Un luogo al centro del rione Regola dalla toponomastica abbastanza poco confondibile:  via dell’Arco de’ Cenci, Lungotevere de’ Cenci, Monte de’ Cenci (dove si erge la chiesetta di San Tommaso ai Cenci) e poi, in uno spiazzale dove un parcheggiatore abusivo decide per una manciata di piccole monete in metallo chi (e come) può lasciare l’automobile, il mio piccolo appartamento, in via Beatrice Cenci, al civico 7. Poco più in là, dalla mia dimora, nello stesso palazzo, che sembra racchiudersi intorno al quartiere come un’antica fortezza, si scorge un’entrata con un grande arco, sorretto da un balcone e, più su, una piccola finestra decorata con festoni rinascimentali. In quella stanza, così teneramente femminile, abitava Beatrice, mostrando al mondo quel poco che poteva di una brevissima femminilità tormentata.

 

I turisti che spendono il loro tempo, nella grandissima bellezza romana, difficilmente riusciranno ad assaporare questo piccolo anfratto di Roma che, come tutte le immagini private, restano nascoste e un po’ furtive, agli occhi dello smartphone o della lente, ormai old style, della camera fotografica. In fondo, quello non è che un sobborgo di Roma abbastanza vuoto, un piccolo budello che scorre, appartato, dal marciapiede trafficato di via Arenula, dove l’immaginario vuole che signore imbellettate, passeggino velocemente per recarsi all’Argentina. In questa piccola piazza, poco o niente: un ristorante dalla parete tappezzata di adesivi di TripAdvisor, il Gambero Rosso o altri certificati di eccellenza o un negozio che appare un inganno sin dall’insegna: l’Astrologo, articoli religiosi e, in fine, una chiesa, un Arco ed una strada che si perde in un piccolo monticello privato.

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L’Arco de’ Cenci, ovvero il luogo in cui qualcuno vide la Madonna piangere

Restiamo alla Chiesa e all’Arco e cerchiamo di proiettarci fuori dal tempo; togliamo gli scooter, le luci al neon ed ogni sorta di modernità da quella strada. Siamo nel 1546, Beatrice non è ancora nata e due giovani stanno giocando sotto quell’arco (anche se un decreto del Monsigor governatore lo ha proibito). Uno dei due avrà raggiunto quel luogo, molto probabilmente, dall’antica via delle Zoccolette: una strada che, prima della costruzione di quella che è oggi via Arenula, era molto più estesa. Le zoccolette erano le orfanelle del conservatorio dei Ss. Clemente e Crescentino “istituito per le povere orfane, denominate – comunemente – zoccolette”. Le zoccolette, però, erano anche le prostitute perché quelle orfane, una volta dismesse dal conservatorio, non avevano altro destino se non quello di finire sul marciapiede. Percorrendo quella strada, dunque, i due giovani, dopo aver attraversato un sottile percorso simbolico che li lega sia alla spiritualità che ai bassifondi dell’anima si ritrovarono sotto l’arco de’ Cenci a giocare come sappiamo… ben presto il gioco degenerò, i due cominciarono ad insultarsi (dalle parole ai fatti, a volte, il percorso è miseramente breve): entrambi cominciarono ad azzuffarsi, uno dei due, fa finire il compagno a terra e, in preda all’ira, brandisce un coltello e sta per finire il rivale; quest’ultimo, vistosi oramai più morto che vivo, chiede all’altro di risparmiarlo, in nome della Vergine Maria, raffigurata in una piccola icona, proprio sotto l’arco. L’uomo allora ha pietà dell’altro, in nome della Vergine e, mentre lo sta aiutando a rialzarsi. questi raccoglie il pugnale “et in premio d’avergli donata la vita, empiamente l’uccise”.
Tanto crudele e vile fu il gesto del balordo che, si narrò che l’icona della Vergine sotto l’arco cominciasse a piangere “abbondandissime lagrime”; per via di quel fatto oscuro e per il miracolo delle lacrime i fedeli vollero erigere una Chiesa, fu così che nacque Santa Maria del Pianto.

 

Bestiario della peggio specie maschile alla festa della donna (8 animali di fantasia, ma non troppo)

L’8 marzo visto dal porco da SUV. Quest’essere ha zero dubbi ed una certezza: le donne sono scrofe maiale. Loro non escono con lui perché grugniscono dietro a quelli in Ferrari e, poiché lui è porco da Suv, passerà l’8 marzo al night, ché lì le maiale sono meno scrofe di quelle tipo la moglie di lui secondo sempre il giudizio di lui

L’8 marzo del fringuellino rock and roll. Lui odia l’8 marzo ma si sogna un sacco di groupie. Lo fa da quando aveva 14 anni… da quando si vedeva la Fenech… da quando ha cominciato a smanettare: con la chitarra. Il fringuellino rock and roll, gira per locali e fa i concerti con i soldi di mamma e papà e indossa robe poco costose: Barbour, Hogan, pantaloni di soia geneticamente modificati. Il fringuellino rock and roll passerà l’8 marzo a fare un concerto (ma solo se è sabato), altrimenti smanetterà un po’, con la… chitarra, be’ sì, ovvio, con la chitarra.

L’8 marzo del camaleonte della mimosa. Questo piccolo animale regalerà una mimosa: alla figlioletta, alla consorte, alla sorella della consorte, alla nonna della sorella della consorte, alla sorella della nonna della consorte. Si direbbe che il camaleonte sia un transformer, elegante con tutte; privo di secondi fini, vi regalerà una mimosa pure a voi, anzi ve ne regalerà due se avete un seno abbondante; tre se gli fate vedere la lingerie, quattro…

L’8 marzo dell’allodola di Shakespeare. Ma quali mimose! Ci vogliono anafore per un foro, anacoluti per i culi, assonanze per le stanze del piacere e poi, doppio, quadruplo enjambement carpiato, parole argentine nel senso di argentate e ballerine nel senso di scarpe basse. Tranquille! L’allodoletta anche oggi tromberà domani!

L’8 marzo della Balena spiaggiata. Essendo un mammifero ha molte assonanze con il porco da Suv, vivendo però in contesti equorei, alla scrofa maiala a lui piace di più la tonnetta di strada. Specie se è straniera perché lui: “ao me mastic English e son one international type”. Festeggerà la donna scorrazzando fra la razza balcanica, la sardina di Cracovia, un panino con la porchetta e, se ci scappa, pure con il pesce impalatore del Brasile

L’8 marzo del Toro da monta. Il giovenco ha: due petti, otto bicipiti ed un paio di tricicli. La carnagione sempre abbronzata tipo coltivatore di cotone, ama le moto, odia i peli, durante le notti tormentate sogna spesso di ritrovarsi da solo in una biblioteca mentre viene inseguito da libri e dispense assassine. L’8 marzo farà uno strip in un locale dove vecchie tardone gli riempiranno le mutande di banconote. Mitico!

L’8 marzo del galletto spennacchiato. Il porco da Suv, l’eroe che ha cominciato la nostra storia e che poi a un certo punto abbiamo visto assai simile alla balena spiaggiata, prima della fine della serata, subirà un’ultima trasformazione; ecco a voi: ii galletto spennacchiato! Dopo aver offerto: 10 bottiglie di Crystal ed aver regalato Swarovski e brillanti, ritornerà a casa in mutande dal night, a protuberanza dritta, ne avrà guadagnato al massimo: quattro complimenti in croce, una consulenza psicologica e un domani sarò tua da tutte le scrofe maiale del night

L’8 marzo però mo è passato e, come ogni bestiario medievale, ci sta pure l’animale mitologico: il Cuccudrone, l’abitante (un po’ folletto e un po’ checcazzè) delle campagne ciociare. Questo è il peggio animale di tutti, perché si ricorda dell’otto marzo o il sette o il nove e gli altri giorni si ‘mbriaca di parole, sghignazzamenti o venefiche mimose attossicate. È solo un gioco però lui l’8 marzo lo passa a bestia che, come la Commedia dell’Arte, si fa animale che respira dietro ogni essere umano e, nel caso del maschio omega plus, si fa fiera della peggior specie

L’8 non m’arzo (le peggio 8 femmine che potrei incontrare)

La festa del gentil sesso si avvicina, a breve donne ‘mbriache lasceranno le loro dimore e si riverseranno (come streghe butterate) nelle strade del vostro centro abitato. Purtroppo, passata la sbronza, la cazzimma di certe di loro continuerà anche durante gli altri giorni dell’anno, ecco da chi starsene accorti

 

  1. Miss Kitty Sincula: non importa se lei diriga una salumeria di paese dove l’ultimo cliente è entrato nel 2006 (ma solo per farsi cambiare due spicci per il parchimetro), questa donna sarà sempre presente per qualsiasi altra cosa al mondo fuorché per voi. Evitatela uomini! Evitatela il prima possibile! La donna in questione, se la contattate, vi porterà a pregare tutti i santi prima di concedervi un secondo (pure quel beato che è stato 6 mesi vescovo di Nicea e ha sculato alla lotteria e l’hanno fatto santo ma che non se lo incula nessuno tranne voi che vorreste passare del tempo con Miss Kitty), se poi voleste avere la brillante idea di sindacare sugli impegni della tipa scoprirete che: doveva prendere un caffè con lo scemo del paese (che merita più tempo di voi), doveva passare del tempo con il fidanzato, l’amante, il cane dello scemo del paese che essendo scemo come al padrone s’è mangiato i compiti in classe della terza C e mo deve essere portato dal gastroenterologo
  2. La badante dell’est: Questa donna, oltre a trovarsi in tutte le città, villaggi, paesi, ospizi di Italia, la si incontra pure nei peggiori social network tipo Badoo che la suddetta usa nel peggiore dei modi. Questo tipo di donna è interessata a voi per quattro, cinque nanosecondi, dove vi dirà che siete bellissimi per poi sciorinarvi che i maschi sono tutti puttanieri e chiedervi che lavoro fate, dove abitate, se vi piacciono i bambini. Se avete un bel conto in banca, la badante si presenterà a casa vostra con tutto il pacchetto All Inclusive (dal piccolo Stevan a nonno Zlatan, ex circense e lavoratore di rame che tanto frequenterà le stazioni ferroviarie dei dintorni)
  3. Quella che “mi dispiace ma non è scattato niente”. La tipa in questione è in genere quella che comincia a frequentarvi a tempo perso fra la parrucchiera e l’ora di palestra. La cosa che dovrebbe scattare in genere ha un tempo minimo, due, tre, incontri. Al quarto incontro, dopo che lei vi ha concesso ben 45 minuti netti del suo tempo, alla prima vostra obiezione vi dirà che non è scattato. Alla donna in questione in genere gli scatta per i tappetini da piedi, quelli che gli dicono sempre sì e la cui attività sessuale si limita ad un largo consumo di filmatini porno.
  4. La strafiga DOC. In un paese in cui i morti di figa fanno sentire una top model qualsiasi melanzanetta che sporga un seno (un seno qualsiasi) a balconcino sgarupato, la strafiga DOC potrà trasformare qualsiasi uomo in drag queen. La strafiga, che tanto ci tiene all’estetica, vi indurrà subito a farvi sfoltire le vostre bellissime ciglia alla Elio per un più ordinato charme ad aletta di pollo arrosto. Poi vi convincerà a comprarvi l’ultimo ritrovato della robotica da giardino per farvelo passare dietro la schiena, vi ungerà di olii di arachidi così sembrerete tutti più lisci e impanati e alla fine sì, vi dirà che quegli orrendi peli sul pube sono proprio antigienici e allora vi ritroverete il pistolino completamente glabro, come non vi capitava ai tempi dei pannolini. La strafiga in questione ha spesse volte la fantasia erotica di un blocchetto di travertino.
  5. L’antiuomo. L’antiuomo è ovunque, per lei gli uomini non valgono niente, ma niente, niente, niente: zero! L’antiuomo sa qual è il vostro punto debole e ve lo farà notare. Siete bravi a scrivere poesie? L’antiuomo vi chiederà le cose più astruse di astrofisica applicata. Ecco? Vedete? Non siete buoni a niente. Manco Einstein per l’antiuomo era niente, sì bravino in fisica, ma è un pessimo riparatore di caldaie. L’antiuomo finirà zitella, ma zitella convinta e iscritta al partito della salvezza femminile. Nessuno, manco Einstein, sarà stato alla sua altezza.
  6. L’antidonna. L’antidonna (o femmina con le palle) è una donna che piglia le proprie sembianze da una crasi orrorifica: ha l’estetica di Simona Ventura e la femminilità della Merkel. L’antidonna si raduna con la sua comitiva a parlare dei cazzi (cioè proprio dei membri fisici) degli altri. Il rapporto sessuale dell’antidonna è molto simile a quello della strafiga (con cui condivide la stessa impercettibile fantasia erotica), ma che arricchisce con una performance degna del miglior porno made in USA, la parole d’ordine sono cazzo grosso e stantuffare, stantuffare, stantuffare. L’antidonna non vuole fiori, se li mangerebbe e non vorrà mai dilettarti di conversazioni sullo charme, sullo stile, sulle tendenze, caso mai ti verrà a raccontare le sue evacuazioni o si esprimerà ruttando. L’antidonna è l’anello di congiunzione fra un platano e Gigione.
  7. La svedese. La svedese non è una realtà geografica: è un mito! Bella, alta, bionda, con gli occhi azzurri, zoccola (o sarebbe meglio dire in maniera un po’ più politically correct dedita al sesso libero); la svedese potrebbe apparire come la donna dei sogni di tutti gli esseri maschili, ma non di certo degli esseri maschili italici. La svedese, infatti, ha un solo problema: è tremendamente emancipata, esigerebbe da voi che vi mettiate ai fornelli, che vi spupazzate il bimbo quando lei esce con gli amici, che ve ne andate a dormire in macchina se lei, a Malmoe, ha appena rimorchiato un turco che mo gli garba ma che fra una ventina di minuti sarà tutto finito e se nasce un figlio poco male, tanto ci siete voi che ve lo spupazzate. La svedese vi farà dimenticare della lasagna che vi cucinava la vostra mammina: letteralmente!
  8. L’amica vostra che fa l’amore con quell’altro. La cosa è tragica, ma quest’essere esiste ed ogni volta che qualcuno si libera da tale donna i miei occhi si illuminano per la sua libertà. L’amica vostra ha molta stima di voi, vi considera come: un ottimo confidente, un bravo tassista, un mago nel trasportare e montare i mobili dell’Ikea, un tipo veramente in gamba per accompagnarla agli eventi, alle serate, ai concerti dove si incontra la gente giusta. Se la gente giusta non si incontra però non è un problema, lei sa che per riportarla a casa voi siete meglio del cocchiere della zucca di Cenerentola; se poi però il tipo giusto c’è, allora tutto cambia, vi chiederà di darvi quel piccolo preservativo che conservate in macchina, voi vi illuminerete che finalmente si è accorta del vostro amore… Il resto lo sapete già, ed è tragico, molto tragico anche solo scriverlo per me

 

Detto questo buon 8 marzo donne (e buon 8 marzo pure agli uomini), se mi avete preso seriamente datemi pure del misogino o del sessista, noi lo sappiamo che voi donne non siete tutte così, anzi, si è solo voluto dissacrare un po’ di realtà che esistono. A ciascuna la rosa (o la spina) che merita.

Dulcis in fundo

La candela irradiava il suo volto di calda bellezza. Io e Sabina ci conoscevamo ormai da vent’anni ed eravamo una cosa sola. Fu proprio allora, mentre mi sentivo avvolto alle sue sensazioni, che fra un pasto e l’altro, gli chiesi:

“Ti va una torta?”
“Salata?”, rispose lei
“Non credo… non mi sembra il posto”, dissi, un po’ confuso
“Hai ragione, cioè, sono una stupida, dico… la serata, la luna, gli antipasti a forma di cuore sì, insomma… sei stato davvero dolce”
“Ehm.. No”, dissi quasi in imbarazzo
“Cioè?”
“Intendevo…”
“Intendevi?”, incalzò lei
“Che… visti i prezzi sul menù… non credo sia salata”
Lei se ne stette in silenzio e si guardò intorno, una bambina bionda con un vestitino bianco corse dalla madre per farsi abbracciare, la bimba sorrideva e accarezzava un principe giocattolo, di pezza, io abbozzai un sorriso, Sabina si mise le mani sul volto, sorrise anche lei e disse: “Sei sempre il solito…”
“Mi ami anche per questo, direi…”
“Che ore saranno?”, mi chiese
“L’ora di un bacio”, risposi
La bimba bionda cominciò a sorridere, lanciando il suo principe in cielo e riprendendolo con le sue manine, due tre, quattro volte, sempre più in alto… A un certo punto, un lancio troppo forte, il principe toccò il soffitto ed ebbe un rimbalzo strano, per un attimo la bambina non sorrise più, il principe volò via dalla terrazza, si accasciò sull’asfalto e, nemmeno il tempo di urlare che una macchina lo investì, spiaccicandolo al suolo.
Fu in quel momento che Sabina scese le scale del ristorante e si precipitò nella via, avrebbe preso quel principe, lo avrebbe ricucito come sapeva fare lei e sarebbe tornata, perché quella era l’ora del bacio e della dimostrazione dell’amore che mi voleva. La bimba piangendo lasciò il ristorante, una coppia di giovani anziani se ne andò parlottando con il figlio, degli esami che avrebbe dovuto dare ed altro, a notte fonda, sentii un rumore di passi che salivano le scale, mi girai con il sorriso dell’amore scemo, era il cameriere, diceva che avrebbero dovuto chiudere e che la mia compagna aveva pensato a saldare il conto. Feci per lasciargli la mancia, disse che non c’era bisogno.

Boule de neige

Disse che finalmente potevano uscire. Aveva smesso di nevicare da giorni e si recò a svegliare i piccoli Gustav e Serena. I bambini aprirono gli occhi e videro il suo volto dai lineamenti così femminili, reso brillante da un sorriso. “Bambini” disse, e gli occhi dei piccoli brillarono come l’impercettibile suono di un uccello in volo… “Bambini, presto! E’ da un po’ che non nevica, finalmente possiamo andar via, vostro padre ci aspetta. E’ bellissimo, si è messo l’abito buono, sembra un principe, un mago”.

“Assaggerò la neve!”, urlò Gustav. “Sposerò papà!”, disse Serena e poi raccontò che gli fece la linguaccia alla madre, la quale le rimandò, complice, un divertente sbigottimento per poi dirle che lo avrebbe dovuto prendere tutto intero, quel principe, comprese le mutande da lavare.

Intanto sulla scala a chiocciola, cominciarono a salire, lenti e pesanti i passi del padre, la madre e i tre bambini, giocavano, guardavano fuori; Gustav saltellava tutto contento sopra il letto e rideva, intanto i passi del padre salivano per la scala, sempre più pesanti e profondi. Fino a che si sentì un click. Lei raccontò di come restò immobile, di come i bambini le andarono vicino e si fecero abbracciare dalla madre. Provarono ad uscire dalla stanza ma la porta era chiusa. Sentirono il padre singhiozzare dietro la porta. Finché, ad un tratto, si udì un gran baccano, un forte tremore, la terra sembrava spaccarsi, caddero le sedie, l’armadio, la neve cominciò a riprendere in maniera copiosa. Disse che fu proprio in quel momento che sentirono la piccola Clara, la bambina che viveva con loro strillare, quasi cantilenando, contro i genitori: “Non voglio i broccoli, non voglio i broccoli, non voglio i broccoli”. Finito quel trambusto, il padre riaprì la stanza, era tutto sottosopra, la neve infuriava fuori la finestra. A quel punto lei disse che stettero tutti e quattro abbracciati, il padre guardò fuori e accarezzò i piccoli e disse: “Non siamo fatti per il mondo reale, viviamo in una palla con la neve dentro che gli umani incuranti scuotono, un po’ per capriccio, un po’ per gioco, un po’ perché non lo so, ma si divertono, quando vogliono, a rovesciare i nostri destini”.

Ascoltavo il racconto di Carla, come facevo ogni settimana da quando era stata in cura presso il nostro ospedale. Anche quella volta mi guardò con gli occhi lucidi e mi disse con un filo di voce: “Dottore…”, ebbi profonda compassione per lei, i cui sensi di colpa per non essere stata a casa durante quel giorno, in cui il terremoto seppellì la sua intera famiglia, le fecero ingaggiare una lotta mostruosamente fantasiosa per liberarsi dalla realtà.

I cenci di Beatrice

In nome del popolo Italiano, la corte di Assise di Roma, all’udienza dell’11 settembre 2015, nel processo instaurato nei confronti di Dei Cenci Beatrice, mediante la lettura del dispositivo ha emesso la seguente sentenza: visti gli articoli 575 e 577 del codice di procedura penale, dichiara l’imputata colpevole di parricidio nei confronti di Dei Cenci Francesco, senatore della Repubblica Italiana e la condanna alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno di anni 1. L’udienza è sciolta.

Nemmeno in quel momento il volto di Beatrice si piegò al dolore. Algida e a modo suo determinata, attese le guardie che la portarono via dall’aula: una donna aveva sfidato la Repubblica e i suoi uomini.
Uscii dal palazzaccio di giustizia e andai al bar di fronte. Presi un caffè e un cornetto alla crema di nocciola, mi piaceva quel posto perché non aveva le solite paste di cartone pressato e i camerieri erano gentili e sorridenti. Diedi un’occhiata al quotidiano che suonava alquanto beffardo: “Il governo approva la proposta dell’ala progressista: più zone rosa per facilitare le manovre di parcheggio alle donne”.

Il caso di Beatrice lo seguii tutti i giorni. Andavo al palazzaccio dopo il lavoro, da quando mi ero lasciato con la mia ex avevo dato più spazio al mio hobby preferito: scrivere racconti. Non voglio essere uno scrittore, preferisco scrivere quando e come mi piace. Lavoro come consulente software, mi occupo di altri linguaggi: ASP.NET, C#, HTML e diverse sigle strane. Scrivo perché sento l’esigenza di immaginare costruendo degli arabeschi di suono intorno al mio scoreggiante mondo interiore.
I giorni dunque li passavo cercando storie e quella volta, entrato nell’aula, il racconto di questa donna bellissima, dai lineamenti dolci e dall’elegante posa rinascimentale, mi si impresse, così alla mente, che potrei riscriverlo a memoria. Io non credo che fu il tran-tran mediatico che un omicidio di un senatore della Repubblica aveva giustamente scatenato nell’opinione a farmi avvicinare al caso. Ero interessato più come una cosa umana. Cominciai a rivivermi Beatrice e le sue parole:

“Mi chiamo Dei Cenci Beatrice, vostro onore, e sono nata a Petrella Salto (La Petrèlla, come la chiamavamo da bambini), il 6 febbraio del 1977. Ho vissuto in questo paesino, in provincia di Rieti, fino a 10 anni, quando con la famiglia mi sono trasferita a Roma, in un palazzo con un’architettura del primo Novecento progettato dal Setti in stile eclettico, qui vicino, in via Crescenzio. Papà non c’era mai, aveva i suoi obblighi di politica e quando c’era, stava sempre con quelle persone che contano: i calabresi, di cui non mi diceva niente. Ho passato più tempo a guardarlo in TV mio padre che non a casa. L’unico momento di consolazione ce l’avevo sui marciapiedi di Roma, quando attraversavo ponte Sant’Angelo, con le sue statue che immaginavo mi dicessero, “Buona passeggiata, Bice” mentre camminavo per poi prendere Lungotevere Tor di Nona, passando davanti alle vecchie carceri, per andarmene a leggere e a studiare nella piccola biblioteca privata su via Tomacelli, al civico 15″.
“Potrebbe smetterla di raccontarci tutta la sua vita, signorina”, la interruppe l’avvocato dell’accusa
“Signor avvocato, lasci parlare l’imputata”, lo bloccò il giudice. E Beatrice continuò così, dopo aver ringraziato a vostro onore.
“Chiedo scusa all’avvocato, passerò alla narrazione di fatti più concreti, ma con il mio nome, con il mio cognome, ho spesso pensato che 500 anni fa, in quelle carceri, siano stati rinchiusi i miei fratelli… tornando a cose più concrete… abbandonai Roma nel 1990. Papà mi iscrisse in un college all’estero, a Sherborne, una cittadina inglese non troppo distante da Oxford. Prima però accadde che giunsero i carabinieri a casa. Venni mandata in fretta e furia nella mia camera da mia madre. L’indomani avevo un biglietto per l’aeroporto di Gatwick e l’iscrizione per uno dei più esclusivi istituiti europei”.

Dopo questa confessione proseguirono altre testimonianze, tesi e fu deciso che Beatrice doveva ripresentarsi una settimana dopo. Passando per via Crescenzio, con il mio motorino per tornarmene a casa, vidi diverse troupe televisive assediate sotto il palazzo che ormai, per i media, era la dimora eclettica della Strega di Prati.
Tornato a casa ripresi i documenti che avevo lasciato al lavoro circa l’architettura di un software da progettare. L’applicativo doveva essere costruito su una piattaforma Microsoft e allora cominciai a pensare la base dati su SQL Server 2012, in dubbio se demandare la realizzazione a una progettazione SOA con l’utilizzo di WCF o meno. Passò poco tempo e chiamai A., per chiederle se avesse voluto mangiare una cosa con me, mi propose l’Osteria del Cavaliere a via Alba, mi ci fiondai al volo. Stavo bene con A., non mi capitava dai tempi della mia ex., ci potevo parlare di tutto e mi metteva a mio agio. Mangiai una pasta e fagioli formidabile e bevvi bicchieri e bicchieri di Genziana. Al ristorante ci immaginavamo le vite di quelli che ci stavano seduti a fianco (abbiamo dato per spacciata una coppia di vegani seduti in fondo alla sala e ci siamo inventati che quelli di fronte erano una famiglia del Molise che erano andati a trovare il figlio studente, fuori corso, pochi esami, in architettura). Dopo cena tornai di nuovo nella mia stanza e pensai a quella storia che avevo sentito al palazzaccio. Beatrice, così bella, veniva accusata di omicidio, lei che era stata spedita d’improvviso all’estero, quella notte che i Carabinieri entrarono a casa. Buttai il pacchetto di Chesterfield blu sulla piccola scrivania, andai in cucina, piano, piano, per non svegliare i coinquilini, lasciai perdere le architetture SOA, presi una Tennet’s dal frigo e mi misi a scrivere.

Beatrice. Quella storia dei carabinieri. la ragazza che abbandona il paese, la madre. Doveva avere pure qualcosa la madre e allora mi venne una data in mente: 9 settembre 1990, pensai che non andava bene, non mi piaceva che quella storia cominciasse sotto il segno della Vergine, allora cambiai, 9 luglio 90! Feci una piccola ricerca su Google per vedere se c’erano partite di calcio, non andava bene nemmeno quel giorno era infatti subito dopo la finalissima dell’Olimpico fra Argentina e Germania durante le notti magiche. Meglio prima,  meglio l’8 luglio, quando qualsiasi maschio del mondo guarda comunque la finale dei mondiali, fosse anche il più importante politico della nazione, il rutto libero,  in quel frangente, è quanto meno imprescindibile.

Allora immaginai poche frasi scritte sul diario di Lucrezia Petroni, madre di Beatrice, datate, per l’appunto, 8 luglio 1990

Il futuro ministro guarda la partita, Bea andrà via domani. Non sopporto, ma sopporto

E poi ancora altre frasi…

Dopo l’eliminazione dell’Italia contro l’Argentina, mio marito rientrò tardissimo, era mascherato e visibilmente sconvolto. Credo abbia fatto uso di cocaina tutta la notte. Entrò e disse a voce alta: “Entrate e godetene tutti, questa è la pellaccia vecchia di mia moglie offerta in sacrificio per voi”, lo seguirono cinque uomini, africani e uno che aveva l’accento calabrese. Mi legarono al letto, mi entrarono ovunque e poi vennero, uno alla volta, sul mio volto, corsi in bagno per lavarmi la faccia. Mio marito mi prese allora per i capelli e mi costrinse a guardarmi allo specchio. Ero completamente ricoperta di sperma, poi lasciò la presa, il mio volto cadde sul lavabo, lo sperma mi chiuse gli occhi. Non emisi nessun grido durante quella violenza, sopportai piangendo, perché se mi fossi messa ad urlare avrei creato scandalo. Mi sentivo come se fossi andata in sposa a Barbablù, ero ingenua quando dissi quel sì di bianco vestita, mi attirò il suo fascino, il suo potere, la foga animalesca che aveva quando facevamo l’amore.

Seguirono diverse udienze per il caso Dei Cenci e tanti testimoni si avvicendarono. Oltre a ciò che andava in atto al Palazzaccio, cominciai ad avvicinarmi alle vicende di quella nobildonna romana del Cinquecento, che si chiamava per l’appunto Beatrice Cenci e la cui anima si narra che proprio l’11 settembre, ogni notte, cammini con la testa in mano sul ponte Sant’Angelo. Lessi tutto quanto c’era da leggere: dai link su Wikipedia, alle narrazioni di Dumas, Stendhal, a quella palla di racconto storico e monumentale che ne fece il Guerrazzi. Fui stregato dal dramma crudele che ne rappresentò Antonin Artaud con il suo Les Cenci. Una notte sognai che mi tagliarono la testa, fui contento che era solo un incubo, mi lavai la faccia e andai al lavoro, alle 18 c’era un’altra udienza con Beatrice, ce l’avrei fatta ad assistere.
Entrai e Beatrice aveva da poco preso la parola “… fu lì che cominciai a vedere documenti strani che circolavano circa la costruzione di nuovi quartieri nella periferia romana, vostro onore. La cosa colpì subito il mio interesse e chiesi a mia madre.
“Non so niente figlia mia, non lo so se quelle ditte calabresi di cui dici furono davvero le stesse con cui collaborava tuo padre”, rispose mia madre.
E allora Beatrice continuò così:
La mia posizione rilevante all’interno della commissione europea, conquistata anche grazie ai soldi di mio padre, mi poneva di fronte ad atti di espropriazione e giri loschi. Mi sentivo come la sposa ingenua a cui Barbablù dà ogni ricchezza, purché non usi mai quella chiave per aprire la porticina, quella che avrebbe svelato un lago di sangue con tutti i cadaveri delle mogli a marcire.
C’era in me, una voce che diceva, Bicetta devi indagare e un’altra, quella della bimba nata sotto la protezione del senatore, che cominciava a piangere angosciata.
Il mio rientro in Italia, vostro Onore, lo conoscete bene. Mio padre aveva sentito che cominciavo ad indagare circa quelle situazioni strane di appalti e tangenti. Si mostrò comunque benevolo e mi disse di riposarmi un po’ e di scendere a Roma, saremmo stati un po’ insieme e avremmo mangiato in quel ristorante al Governo vecchio che mi piaceva tanto quando ero ragazzina e che ancora era lì a sfornare piatti e piatti della tradizione  con quella sua gustosissima pasta con cozze e pecorino.
Mi dissi che in fondo potevo tornare in Italia, che li avrei rivisti e mi piaceva l’idea di rincontrare le statue giocose di ponte Sant’Angelo, la vecchia biblioteca di casa dove avrei rovistato fra i miei libri per ricercare le lettere che mi scriveva il mio spasimante: Olimpo Calvetti. Quel ragazzo lo conobbi durante una rappresentazione scolastica che fecero alla Camilluccia, non mi piaceva fisicamente, ma il suo sguardo mi diceva che mi avrebbe seguito anche nelle più remote carceri.
Arrivai a Fiumicino, presi il trolley e mi avvicinai verso un tizio che aveva un cartello con su scritti il mio nome e il mio cognome, pensai subito che fosse un autista che mi aveva mandato mio padre. Le nostre presentazioni mi rassicurarono:
“salve, signora Beatrice, suo padre non è potuto venire a prenderla perché impegnato con il lavoro”
“Sì, immagino sia molto occupato”, risposi
“Non si preoccupi, si libererà per cena, la porteremo noi a casa, siamo i suoi autisti privati, ci segua pure”
Erano in due, sembravano una scorta, vestiti di nero, muscolosi, facevano una fatica assurda sia a darmi del lei che a parlare in italiano corretto, ma non erano stranieri e la cosa mi faceva ridere. A un certo punto però non ricordo più niente. Non so per quanto avevo dormito e non so dove potevo essere, mi alzai con una puzza di sangue che mi diede subito alla nausea. Vostro onore avete creduto di apprendere tutto dalla TV, da Internet e dalla radio circa quel rapimento in Calabria, ma ci sono cose che ancora non ho la forza di ricordare”, disse Beatrice il cui volto era ormai imploso orribilmente in una maschera di angoscia
“Va bene così”, disse il giudice impietosito.
“Essendo però questo evento, anche se traumatico, molto importante ci riserviamo per ora di sospenderlo, lo riprenderemo in un secondo momento”
“grazie, vostro onore”, disse Beatrice con un filo di voce che si faceva spazio fra i suoi singhiozzi
A quel punto immaginai che venne chiamata a deporre la madre di Beatrice, Lucrezia Petroni, la quale esordì dicendo:
“vostro onore, anche per me è difficile ricordare quanto ascoltai da Beatrice durante il suo esilio nella Locride, voglio leggervi però le torture che mia figlia dovette subire da questi esaltati sequestratori, che ce la tornarono in vita, ma profondamente ferita nell’animo, perché come diceva mia figlia, fino a quando il senatore non avrebbe pagato la ricompensa, loro le avrebbero fatto vivere le torture sacre, quelle papali, perché un prigioniero di alto rango doveva avere un trattamento adatto. E su queste parole, vado a leggervi, se mi consentite quanto mi raccontò mia figlia e quanto io, tracciai sul mio diario privato:

La tortura dei fischietti

Ho aspettato diverso tempo prima di chiedere a Beatrice maggiori spiegazioni circa le strane foto che ci inviavano i rapitori. La prima mostrava le sue dita martoriate, piene di grumi di sangue rappreso. Lei mi disse che quella foto rappresentava solo l’inizio delle tremende torture che subì. Quel giorno arrivarono, mi raccontò,  delle persone incappucciate, bruciarono un santino e iniziarono a recitare un salmo dedicato ai tre cavalieri sacri alle cosche mafiose: Osso, Malosso e Carcagnosso. Uno di loro prese a intagliare un giunco da cui ricavò delle piccole striscioline simili a fischietti, gliele conficcarono fra le unghie e la pelle e lasciarono la mia piccola bambina con quelle cose che le dilaniavano le carni non si sa per quanto tempo…

La tortura del fuoco

In un’altra foto vidi la pelle di mia figlia con fortissime escoriazioni di bruciature, quello che mi raccontò Beatrice ha del raccapricciante, il cui solo pensiero di scriverlo, mi attanaglia lo stomaco come una lama che sventra le mie carni. Dopo il rituale del santino e del salmo votivo, uno dei tre uomini accese un piccolo braciere, avvicinarono i piedi di mia figlia alla distanza giusta per farle sentire dapprima un forte calore che si faceva sempre più infuocato fino a bruciarne la pelle. Beatrice ricorda che mentre facevano questa pratica, in quella macelleria dismessa, vicino a tutte quelle bestie appese qualcuno la scherniva dicendo che quella sera l’avrebbero mangiata servita con patate novelle. Non contenti di ciò, prima la semi denudarono, poi le spensero dei mozziconi di sigarette accesi sul seno e sulle mani.

La tortura della veglia

In un’altra foto Beatrice ci si mostrò con gli occhi scavati e un’espressione del volto che sembrava scoprire dei nervi tesi come se avessero steso al sole le sue vene. Pensai subito che non riusciva più nemmeno a vivere e quello che mi raccontò si rivelò ancora più atroce di ogni mia possibile immaginazione. Questa tortura a differenza delle altre non cominciò con il solito rituale ma Beatrice, da come mi disse, si ritrovò immersa durante il sonno in un secchio di acqua gelata. Continuò così per svariate ore, ogni volta che provava a chiudere gli occhi perché stremata e bisognosa di sonno, proprio quando stava per dormire però era costretta a risvegliarsi perché la sua testa veniva immersa in un secchio di acqua gelata.

La tortura della corda

Fra tutte le torture, nell’antica Roma papalina, questa della corda era la più temuta. Dolorosa fino all’inverosimile, gli sventurati che si sottoponevano a questa tortura, anche se innocenti confessavano la propria colpevolezza perché la morte al confronto poteva apparirgli come una pagana benedizione. La foto che ci arrivò è quella che mai nessun giornale, mai nessun sito web, mai nessuno insomma, ha avuto la forza di pubblicare. Una donna, mia figlia, se ne rimaneva incatenata, semi nuda, con i lividi ovunque, in una pozza di vomito, sangue e rassegnazione. Anche la più femminile delle qualità dell’essere umano, l’anima, era stata stuprata. Beatrice mi disse soltanto: “mamma, sono rimasta appesa a un gancio, con la bocca coperta da un nastro isolante, vicino alla carcassa di animali squartati ed ormai, quasi, in putrefazione”

Dopo il racconto della madre tornai a casa e decisi di finirla questa storia, se fossimo stati ad Hollywood un produttore mi avrebbe imposto un happy ending, credo che lo stesso avrebbe fatto un editore se io fossi stato uno scrittore professionista. Ho comunque la fortuna e il portafogli vuoto (oltre che lo stile) di un dilettante e posso dunque concedermi anche il diletto di infrangere le regole del gioco, limitando a dirvi che ci fu un dettaglio importantissimo grazie al quale Beatrice scoprì la connessione fra il padre ed il suo rapimento in Calabria. La ragazza e i suoi nervi non ressero a questa rivelazione e, con l’aiuto della madre, mentre il padre dormiva rescisse di netto, con un colpo di mannaia la testa dell’uomo. Ho disseminato questo dettaglio lungo il racconto, forse, oppure vi chiedo di inventarvelo voi, lettori, perché se un lettore è tale, mentre legge con la fantasia scrive anche una sua versione della storia. Beatrice fu condannata all’ergastolo, la madre a trent’anni di carcere. Ancora oggi l’omicidio è giustamente un reato penale, ancora oggi, duemila e passa anni dopo la nascita di Cristo i potenti sono legittimati a fare i potenti e le donne, purtroppo, alla sopportazione eterna.